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LAVORO: I NEOLAUREATI FUGGONO ALL’ESTERO

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(WSI) – Trovano lavoro con canali più trasparenti, fanno carriera con maggiore rapidità, guadagnano di più. Alla fine, sono abbastanza semplici i motivi per cui sempre più giovani italiani – dopo gli studi – scelgono di lasciare il nostro Paese e di tentare la fortuna all’estero.


È ancora una minoranza certo, una specie di avanguardia, ma non più una sparuta pattuglia di cervelli super-specializzati. Anzi, la novità degli ultimi anni è forse proprio il fatto che accanto a ricercatori e promesse della scienza ci sono tanti ragazzi che scelgono di giocare oltre confine la propria professionalità nei settori più diversi. Insomma, vanno a fare all’estero quella carriera professionale che magari potrebbero fare anche in Italia, ma con qualche difficoltà in più e qualche soddisfazione in meno.

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La radiografia del fenomeno l’ha fatta il Censis, usando dati dell’Istat ma anche di altri centri di ricerca e istituzioni, tra cui l’Immigration and Naturalization Service degli Stati Uniti. La ricerca sarà presentata a settembre nel World Social Summit organizzato per il prossimo settembre dalla Fondazione Roma. Il quadro che ne esce è allo stesso tempo incoraggiante e demoralizzante. Incoraggiante perché indica la presenza in particolare tra i giovani di energie fresche, di animal spirits in grado di guardare oltre il proprio orizzonte domestico e immaginare qualcosa di nuovo.

Demoralizzante, perché resta sempre il dubbio che almeno una parte di questi emigranti, in condizioni diverse, sarebbe rimasta volentieri in Italia per contribuire alla crescita economica e civile del Paese.
Per prima cosa, i dati permettono di sfatare o quanto meno ridimensionare un’idea che si presenta subito alla mente ragionando di queste cose: i giovani italiani che fanno carriera all’estero – si potrebbe pensare – devono il loro successo al fatto di essere in partenza i migliori, i più preparati, quelli che riescono meglio nello studio.


È vero solo in parte. Tra le ragazze e i ragazzi che a tre anni dalla laurea hanno trovato lavoro all’estero quelli con una votazione di almeno 110 sono il 32,2 per cento: la percentuale è solo di poco più bassa (26,2 per cento) tra i giovani che invece lavorano in Italia. E alla stessa conclusione si arriva confrontando le percentuali dei laureati in corso. Dunque accanto alla preparazione pura contano forse altre doti, come elasticità e voglia di rischiare.


Per farsi un’idea è interessante anche guardare in particolare cosa succede negli Stati Uniti, da sempre destinazione privilegiata dell’immigrazione italiana. Nel 2006 vi sono arrivati 2.983 ricercatori e borsisti, il 47,9 per cento in più rispetto al 1998. Ma l’incremento è ancora più significativo (+62,1 per cento) se si considerano tutti i 24.445 lavoratori che sono entrati con un visto di ingresso temporaneo. Tra loro c’erano 13.368 persone con elevata professionalità.


Ma cosa fa davvero la differenza tra lavorare in Italia e all’estero? Intanto, almeno in una certa misura, il canale di accesso, il modo in cui si trova lavoro. Sempre considerando i laureati da tre anni, l’invio del curriculum è la modalità principale in entrambi i casi, ma all’estero capita abbastanza frequentemente di centrare l’obiettivo attraverso le inserzioni sui giornali o su Internet (22,4 per cento contro il 9 in Italia). Più frequente oltre confine l’accesso tramite stage o tirocinio in azienda. Da noi in compenso è un po’ più alto il ricorso alla classica segnalazione di parenti e amici.
Quanto alla carriera, tra i lavoratori dipendenti quelli che a tre anni dalla laurea hanno una posizione di quadro o funzionario sono il 32,1 per cento all’estero e il 17,1 in Italia, mentre l’accesso “precoce” alla dirigenza è equivalente nei due casi (intorno al 2 per cento).


Ma i dati che saltano più agli occhi, brutalmente, sono quelli relativi alla retribuzione: è sotto i 1.000 euro netti al mese per il 24,6 per cento dei giovani rimasti in Italia, dunque circa un quarto, contro il 10,2 di quelli che lavorano all’estero. Tra i 1.000 e i 1.300 euro le percentuali sono 40,4 contro il 16,4 per cento. Ma è guardando alla fascia alta che il confronto si fa impietoso: tra chi ha trovato lavoro fuori dei confini nazionali lo stipendio supera i 1.700 euro al mese nel 43 per cento dei casi, tra chi è rimasto a casa appena per il 9,2 per cento.

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D’accordo che i soldi non sono tutto, d’accordo anche che in alcuni dei Paesi di approdo il costo della vita maggiore può giustificare retribuzioni più pesanti. Ma l’impressione che la tua patria ti valuti meno, e dunque in un certo senso ti rifiuti, forse a qualcuno di questi moderni “emigranti” resterà.

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