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LA QUARTA GUERRA DEL GOLFO?

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(WSI) – In fondo al Golfo Persico, oltre lo Stretto di Hormuz,
d’estate la temperatura raggiunge i 50 gradi, l’aria trasuda umidità, la sabbia
raschia la gola e l’atmosfera inala nei polmoni una miscela micidiale di
metano e Corano: questo è Assaluyeh, il complesso industriale di South Pars, il
più grande giacimento di gas del mondo dove sventola la bandiera della
repubblica islamica. L’Iran “atomico” di Ahmadinejad custodisce, secondo
l’autorevole Oil & Gas Journal, il 16% delle riserve mondiali di gas e l’11% di
quelle di petrolio. L’influenza degli ayatollah sui mercati dell’energia è
indiscutibile: questa è la vera arma di distruzione di massa dell’Iran per
spaventare i suoi nemici.

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La crisi tra l’Iran e l’Occidente sta emergendo come la questione
geopolitica del 2006. È possibile un’altra guerra del Golfo? Sarebbe la quarta
dopo il conflitto Iran e Irak dall’80 all’88, quello per il Kuwait nel ’91 e
l’invasione americana dell’Irak nel 2003. Guerre di potenza e petrolio che non
hanno risolto l’instabilità del Medio Oriente, dove l’Arabia Saudita possiede
un quarto delle riserve mondiali accertate di oro nero e l’intera regione,
dall’Irak, all’Iran, dal Kuwait agli Emirati, estrae il 40% della produzione
globale. L’ipotesi di un altro conflitto, come dimostra la storia antica e
recente, non è da scartare: da quando Churchill nel 1908 decise di convertire
l’alimentazione della flotta da carbone a oro nero, le nazioni vanno in guerra
con il petrolio e per il petrolio.

La maggior parte degli osservatori finora ha escluso la possibilità di
una nuova tempesta d’acciaio nello Shatt el-Arab: il rischio di un’impennata dei
prezzi è troppo grande, l’Iran può bloccare le sue esportazioni e quelle degli
altri Paesi del Golfo, un bombardamento aereo e missilistico potrebbe dare
risultati non decisivi, scatenando un’altra ondata di risentimenti
anti-occidentali sui quali fanno leva i movimenti islamici. Il presidente
iraniano Mahmoud Ahmadinejad è passato all’offensiva sull’atomica proprio
perché conta su questi fattori, così almeno sostiene Farad Khosrokhavar,
direttore della Scuola di alti studi sociali di Parigi, uno dei maggiori esperti
di Iran e Medio Oriente. Il parere di Khosrokhavar è condiviso da molti altri
analisti, anche americani.

Eppure il pericolo di un conflitto esiste, condotto magari su scala
regionale e non, almeno ufficialmente, dagli americani: Ahmadinejad si comporta
come se la guerra fosse già iniziata e teme, secondo i diplomatici iraniani,
che Israele, potenza nucleare non dichiarata del Medio Oriente, intenda
ricorrere alla forza. «In fondo – sottolinea Khosrokhavar – nessuno in
Occidente ha mai fermato la mano di Israele quando voleva colpire un
obiettivo».

Prima di piombare nel coma, il premier israeliano Ariel Sharon aveva fatto
capire che l’Iran potrebbe essere nel mirino di un’operazione “Osirak Plus”, dal
nome dell’impianto atomico iracheno distrutto nell’81 dai caccia di Tel Aviv.
Troppi i bersagli da centrare, troppo pochi gli aerei disponibili, dicono i
critici dei piani di attacco. Uno “strike” israeliano parziale assesterebbe
comunque un duro colpo non soltanto alle velleità atomiche dei pasdaran, ma a
tutto l’Iran. E in Medio Oriente, grazie anche all’ascesa di Hamas, si sta
creando un clima internazionale meno sfavorevole alla giustificazione di un
attacco preventivo.

Le conseguenze di un’azione militare però possono essere devastanti: un
conflitto può mandare in crisi le forniture e, soprattutto, non esiste più da
un pezzo una capacità di produzione petrolifera inutilizzata. I grandi
produttori, dalla Russia all’Arabia Saudita, stanno pompando a pieno ritmo per
approfittare dei prezzi elevati. In passato è stata l’Arabia Saudita, l’amica
del cuore del mondo industriale, a calmare i mercati nei momenti difficili con
supplementi di milioni di barili quando Saddam nel ’90 invase il Kuwait, dopo
l’11 settembre e nel periodo precedente l’invasione dell’Irak. Le riserve
strategiche, americane ed europee, oggi coprono una domanda limitata, e se la
spia del serbatoio comincia a segnare rosso anche gli indici della crescita si
abbatteranno.

Quale sbocco può avere la crisi sul piano diplomatico? Se l’escalation
contro Teheran si concretizzasse con eventuali sanzioni, gli iraniani potrebbero
utilizzare l’arma del petrolio come già fecero gli arabi nella guerra del
Kippur del ’73 e dopo l’ascesa di Khomeini nel ’79. La maggior parte degli
osservatori fa notare che al Consiglio di Sicurezza si potrebbero opporre a
sanzioni la Russia, la Cina che conta per il 25-30% delle sue importazioni
petrolifere dall’Iran, l’India, membro non permanente del Consiglio, che da
Teheran acquista buona parte del suo greggio e vuole fare un gasdotto delle
meraviglie con gli ayatollah.

Un terzo dell’umanità dipende e dipenderà dalle potenzialità energetiche
iraniane: un buon motivo per evitare una guerra o per farla, a seconda dei punti
di vista. Il petrolio costituirebbe insomma una patente di immunità per l’Iran.
È un ragionamento razionale, ma gli Stati Uniti stanno esercitando forti
pressioni proprio su Cina e India, facendo intravedere la possibilità di
alternative energetiche e strategiche. Gli Usa hanno in mano la carota ma anche
il bastone perché controllano gli Stretti delle petroliere, da Hormuz a
Malacca.

Quale potrebbe essere una via di uscita? La soluzione, avanzata dal direttore
dell’Aiea Mohammed el-Baradei, è di aprire un negoziato sul nucleare in Medio
Oriente per arrivare a un patto di sicurezza regionale. Israele, con le sue 200
testate atomiche, ha espresso una certa disponibilità. Si fa poi notare che gli
Stati Uniti e l’Iran hanno interessi convergenti in Iraq, dove gli sciiti,
vincitori delle elezioni, sono interessati a stabilizzare il Paese. Gli Usa
accerchiano l’Iran in Afghanistan e Iraq ma hanno anche liberato Teheran da due
nemici: Saddam e i talebani.

C’è però un’altra faccia della medaglia: iraniani e iracheni controllano il
petrolio del Golfo. Una “Mezzaluna sciita” ricca di risorse che preoccupa i
sunniti, ma anche Stati Uniti e Israele. In fondo al Golfo, dove spesso oro nero
e gas evaporano all’orizzonte insieme alle speranze di pace, quasi sempre ci
sono più motivi per fare una guerra che per evitarla. Resiste, per il momento,
una sorta di “equilibrio della paura” dettato dai timori per le riserve e le
forniture energetiche mondiali, che sembra ipotecare altre iniziative militari
dopo quella, impegnativa e irrisolta, in Irak. La quarta guerra del Golfo, per
il momento, si consuma in una battaglia negli ovattati corridoi della
diplomazia, e nel freddo calcolo degli interessi economici e strategici.

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