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La dottrina divinatoria degli indicatori di sentiment

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*Questo documento e’ stato preparato da Alessandro Fugnoli, strategist Kairos Partners SGR. ed e’ rivolto esclusivamente ad investitori istituzionali ovvero ad operatori qualificati, così come definiti nell’art. 31 del Regolamento Consob n° 11522 del 1° luglio 1998 e successive modifiche ed integrazioni. Le analisi qui pubblicate non implicano responsabilita’ alcuna per Wall Street Italia, che notoriamente non svolge alcuna attivita’ di trading e pubblica tali indicazioni a puro scopo informativo. Si prega di leggere, a questo proposito, il disclaimer ufficiale di WSI.

Milano – Si diceva, un tempo, che quando un toro appariva sulla copertina di Time Magazine bisognava correre a vendere. La stampa generalista ha i riflessi lenti del suo pubblico, era il ragionamento, e la cover story con il toro arriva puntualmente quando il rialzo è già cominciato da mesi o anni ed è già maturo o addirittura prossimo alla fine. Per comprare, ovviamente, si suggeriva di aspettare l’orso in copertina.

Negli anni la redazione di Time, alle cui sensibili orecchie deve essere arrivata notizia della leggenda metropolitana sulla sua infallibilità a contrario, si è fatta purtroppo più prudente e sfumata e così abbiamo tutti perso un prezioso indicatore di sentiment. Il testimone di Time è stato però raccolto dall’Economist che, avendo un grado molto maggiore di presunzione intellettuale, non sfuma quasi mai con un punto interrogativo le sue verità apodittiche. Ecco dunque, nel marzo 1999, la sua celebre copertina Annegati nel Petrolio. L’editoriale dell’epoca spiega che il greggio, che costava allora 10 dollari e veniva da un lungo bear market, era così abbondante da essere destinato a dimezzarsi di prezzo negli anni successivi, nei quali è invece aumentato di 12 volte.

L’Economist si corresse quattro anni dopo e, con l’immagine di due pompe di benzina arrugginite dal sole del deserto, proclamò La Fine dell’Età del Petrolio, causa inevitabile esaurimento dello stesso. Una tesi non condivisa da Newsweek che, nell’aprile 2009, festeggia la discesa del Brent dai 146 dollari di otto mesi prima ai 49 di quel momento con un audace Cheap Oil Forever (sottotitolo Perché i prezzi continueranno a scendere, e poi ancora a scendere). La copertina divenne subito di culto, perché coincise perfettamente con l’inizio del grande rialzo.

Se questi indicatori di sentiment fossero sempre così efficaci, la vita di chi sta sui mercati sarebbe troppo facile. I segnali non parlano quasi mai così chiaro e nelle società umane sono state create apposite caste sacerdotali assegnate alla loro interpretazione. Exta, monstra, fulgura (viscere, prodigi, fulmini) richiedevano l’aruspice anche prima degli Etruschi.

Negli ultimi giorni due segnali hanno catturato l’attenzione di molti osservatori. Il primo è l’intenzione espressa dal Cancelliere Osborne di tornare a emettere obbligazioni perpetue per il tesoro di Sua Maestà. Il secondo è l’annuncio profetico dell’inizio di un rialzo secolare sulle borse europee da parte di Peter Oppenheimer di Goldman Sachs, sul quale ci siamo soffermati la settimana scorsa.

Nel primo caso la reazione quasi automatica dei commentatori è stata la proclamazione dell’inizio ufficiale del grande bear market obbligazionario globale. Il ministro del tesoro del Regno Unito dispone dei migliori consulenti e ha fisiologicamente e legittimamente un ovvio conflitto d’interesse rispetto ai compratori dei suoi titoli. Vale quindi la Prima Regola dell’obbligazionista. Accorcerai la tua duration (venderai cioè i bond lunghi) quando il debitore più brillante cercherà di allungare al massimo quella della carta che ti propone. Allungherai invece la tua duration quando il debitore più brillante smetterà di emettere a tasso fisso e passerà a proporti il variabile. Vita sua, mors tua.

Come il Mark Twain che definì prematura la notizia della sua morte pubblicata da un giornale, l’idea di espellere per sempre dai portafogli i bond di alta qualità è in anticipo sui tempi. Il bear market secolare sui Treasuries è durato del resto 13 giorni e da una settimana siamo in recupero.

Con una Fed che tutti i giorni compra titoli lunghi sul mercato nell’ambito dell’operazione Twist è difficile pensare che i policy maker accettino una caduta strutturale del loro valore. Quanto ai perpetui inglesi, un bravo venditore lascia sempre al compratore un piccolo margine di guadagno, almeno all’inizio. Non è intelligente bruciare subito uno strumento se se ne vuole collocare nel tempo una quantità rilevante.

Detto questo, comprare un perpetuo governativo dopo trent’anni di rialzo obbligazionario è cosa che possono permettersi solo un fondo pensioni disperato o un trader che ne controlli il prezzo ogni cinque minuti. In generale non pensiamo a un’inversione di tendenza marcata per i governativi lunghi nobili (Bund e Treasuries) ma a una condizione asimmetrica in cui si può vivacchiare ancora qualche mese in cambio di un rendimento inferiore all’inflazione e di rischi comunque crescenti.

Per quanto riguarda la chiamata di Peter Oppenheimer per un grande rialzo azionario, confermiamo la reazione a caldo che abbiamo espresso la settimana scorsa. Le argomentazioni sono interessanti e degne, il timing e l’ardore (elementi tutto sommato secondari) segnalano semmai un massimo di periodo e non vanno presi come indicazione a contrario di un massimo di ciclo. Lo stesso vale per la teorizzazione della possibilità di stiracchiare le metriche di valutazione. C’è in giro un po’ di voglia di essere più liberali nella loro applicazione (segno di un possibile massimo di periodo), non l’invenzione di nuove metriche fantasiose (tipica della fase finale di un bull market).

Gli elementi che suggeriscono di assumere un profilo azionario più neutrale per le prossime settimane si moltiplicano del resto ogni giorno. I titoli che salgono sono sempre di meno e si limitano ormai a pochi grandissimi nomi della tecnologia. Molti hedge fund, che in larga misura erano rimasti scettici sul rialzo, hanno capitolato e sono entrati. Sono smart money, ma niente offusca le menti come un posizionamento iniziale sbagliato.

Poi c’è l’Europa. I suoi leader proclamano l’uscita definitiva dalla crisi, ma il trionfalismo non è utile, così come non lo è mai stato da due anni in qua. Da qui alla fine di maggio avremo in sequenza due turni di elezioni francesi, elezioni in Grecia e un referendum sull’Europa in Irlanda. E’ probabile che tutto fili liscio, ma un minimo di prudenza da parte dei mercati sarà più che comprensibile.

Sulla Spagna circolano studi seri e meno seri. Edward Hugh ha provato a ricalcolare a modo suo il debito spagnolo ed è arrivato alla conclusione che è pari al 90 per cento del Pil e non al 68 delle cifre ufficiali. Hugh è uno spregiudicato permabear. Lo ricordiamo, nel 2009, dare per certo il fallimento (mai avvenuto) dei baltici, delle banche svedesi e di metà dei Balcani. L’impressione che Zapatero abbia abbellito i conti fino a renderli quasi irriconoscibili tuttavia rimane e riceve ogni giorno conferme. Un permabear molto più serio e scrupoloso come Willem Buiter fa un’analisi impietosa e preoccupante della situazione spagnola e non è tenero nemmeno con il governo in carica, ma definisce ancora evitabile una ristrutturazione del debito. Detto questo, lo spread di 350 applicato alla Spagna continua a sembrare molto ottimista. Quanto all’Italia, le esitazioni sul percorso delle riforme verranno tollerate poco nelle prossime settimane.

Anche i fondamentali macro invitano alla prudenza. Niente di grave, per carità, ma la decelerazione della crescita della produzione industriale si farà presto sentire nei dati. Le vendite di automobili in America, ad esempio, sono state eccezionalmente forti il mese scorso, ma sono in questo momento, quasi sicuramente, in rallentamento. In Cina, d’altra parte, è possibile che alcuni settori dell’industria pesante, come l’acciaio, siano addiritura in arretramento assoluto rispetto all’anno scorso.

C’è poi la questione della produttività. Una volta cresceva nelle fasi di espansione e calava bruscamente durante le recessioni. Succedeva in pratica che le imprese, quando vedevano una crisi, aspettavano qualche mese prima di pensare a licenziare. Si comportavano in questo modo per non perdere quote di mercato quando sarebbe arrivata la ripresa, che in genere non tardava mai troppo. In questa crisi, invece, si è licenziato drasticamente e immediatamente. Nell’inverno 2008-2009 gli occupati sono scesi in poche settimane molto più delle vendite e la produttività è esplosa. In questo nuovo mondo crudele e brutale evitare di bruciare cassa è diventato più importante del rischio di perdere quote di mercato.

All’arrivo della ripresa le imprese hanno mantenuto per due anni un atteggiamento di feroce controllo dei costi, ma da qualche mese i grandi licenziamenti sono completamente cessati e si assume di più. Il costo del lavoro cresce più velocemente delle vendite. La produttività decelera, i margini di profitto hanno smesso di salire.

Infine c’è il petrolio. Finora la sua forza è stata compensata dalla debolezza estrema del gas. Il consumatore americano paga di più per il pieno di benzina, ma il riscaldamento costa molto meno di prima. Per l’Asia e per l’Europa meridionale il gas costa però come prima e non compensa il rincaro della benzina.

Dal 2008 a oggi abbiamo vissuto in stato di guerra. Siamo stati in permanenza con le orecchie tese verso le sirene d’allarme e quelle del cessato allarme. In guerra non si combatte sempre, ma un giorno di quiete sotto la legge marziale assomiglia solo superficialmente a un giorno di pace a guerra finita.
Da qualche settimana i mercati hanno la sensazione che allo stato di guerra stia finalmente seguendo lo stato di pace. In realtà siamo solo all’armistizio. Gli armistizi si concludono quasi sempre con la firma di un trattato di pace, ma sono diversi dalla pace vera e propria.

La fase laterale che si profila fino all’estate sarà più nervosa di quello che si poteva immaginare fino a un paio di settimane fa. Seguirà nel bene e nel male dati macro disomogenei ed eventi politici europei in parte imprevedibili. Offrirà l’occasione a chi ha saputo cavalcare il rialzo di questi mesi di ridurre i suoi rischi. Chi è stato troppo a lungo alla finestra potrà invece sfruttare le fasi di correzione per iniziare a normalizzare i portafogli, alzandone con calma la componente azionaria.

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