Società

L’OTTIMISMO
DEI MERCATI?
E’ ECCESSIVO

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Prosegue imperterrita l’ascesa dell’azionario, mentre i bond, dopo la brusca caduta estiva, sembrano aver forse trovato una base da cui tentare per lo meno un parziale recupero. Sebbene la fuga dall’obbligazionario si sia al momento arrestata, ciò non significa che l’ottimismo per le prospettive di economie ed utili stia perdendo colpi; anzi la fiducia nella ripresa americana si sta diffondendo al punto tale da determinare i
primi significativi spostamenti di asset allocation proprio alla riscoperta delle Borse.

I dati sulla raccolta dei fondi USA sono abbastanza eloquenti e mostrano una graduale ripresa dell’azionario (quasi 60 mld di dollari da inizio anno, dopo un deflusso di una ventina di mld l’anno precedente; un’inversione significativa, anche se siamo comunque lontanissimi dalla punta record di 300 mld di dollari raccolti nel 2000 e dai quasi 200 mld mediamente raccolti nei suoi cinque anni precedenti) e i primi deflussi sui bond (oltre 10 mld di dollari in luglio, dopo un anno e
mezzo consecutivo di raccolta positiva), mentre più timido appare il movimento qui da noi in Europa. Ma come notavamo un paio di settimane fa, l’impressione è che questi movimenti siano dettati molto più dal sentiment del
momento, capace di far leva su considerazioni razionali molto meno convincenti; e poiché è ormai fin troppo chiaro
che le mode e gli umori altalenanti muovono i mercati ben più della realtà sottostante – per chi ne dubitasse valga
da sola l’esperienza dei listini negli ultimi cinque anni, dall’euforia più sfrenata alla depressione e parziale ritorno –
non c’è da stupirsi troppo di quanto accade oggi.

Potrà apparire assurdo veder rincorsi titoli che sei mesi fa
costavano anche il 50% in meno e allora venivano giudicati privi di interesse a causa delle psicosi geopolitiche, ma
è così che si muovono mercati e investitori. Dubbi simili sorgono a maggior ragione a proposito dell’Europa,
un’area che a differenza degli USA non sta sperimentando alcuna ripresa economica e la cui unica speranza di
riavvio, parziale, è di rimanere agganciata al carro della crescita d’oltreoceano. E non è inoltre curioso che le
nostre banche, uno dei comparti più legati all’andamento del ciclo, non fosse altro che per la qualità del credito,
continuino ad essere tra i titoli più gettonati (al contrario dei bistrattati telefonici) nonostante l’economia sia finita in
recessione e non offra prospettive di significativo riavvio in tempi brevi, mentre il comparto ha nel frattempo vissuto
una rivalutazione di oltre il 30%?

Forse si trattava di esagerazioni ora giustamente corrette, ma andando avanti su
questa strada si rischiano nuovi eccessi, stavolta dal lato opposto, fonte inevitabile di nuove disillusioni e
altrettante ricadute.

A furia di stimoli fiscali e tagli dei tassi l’economia americana è ripartita; e fin qui tutto era abbastanza
prevedibile. Il punto è che questo riavvio forzato rischia di ampliare gli squilibri che già caratterizzavano il sistema,
in particolare per quanto riguarda i conti con l’estero e l’esposizione debitoria delle famiglie, entrambi collegati al
perdurante boom dei consumi. Ad essi si è poi aggiunto un rinato deficit federale, frutto del massiccio intervento di
stimolo dell’Amministrazione Bush e del suo contestato impegno militare all’estero.

Quanto al mercato immobiliare,
forse non rappresenta ancora la nuova bolla speculativa del secolo, ma il fatto che il prezzo medio delle abitazioni
abbia già superato il record storico di 3 volte il reddito medio delle famiglie dovrebbe far riflettere. Anche in
considerazione del fatto che le famiglie a loro volta hanno già ipotecato circa il 50% del patrimonio immobiliare in
loro possesso ricevendone finanziamenti a condizioni sempre più vantaggiose che hanno a loro volta alimentato il
boom dei consumi.

Un circolo, finora virtuoso, che alla lunga potrebbe però prendere tutt’altra direzione se il costo
dei rifinanziamenti dovesse bruscamente risalire – e questo è già accaduto – e se anche il valore delle case
dovesse iniziare a scendere (e qui invece fortunatamente non se vedono affatto gli indizi). Insomma, il cammino
della ripresa americana, già tutt’altro che lineare, è comunque ancora soggetto a numerose insidie, tali da poterne
mettere in discussione la sostenibilità, da qui a qualche mese.

La continua distruzione di posti di lavoro, testimoniata venerdì scorso dal disastroso dato di agosto
sui nuovi occupati (ben 93mila unità in meno, distribuite tra il comparto manifatturiero e quello dei servizi, quando
il consenso era per un recupero, dopo sei cali consecutivi), rappresenta un altro campanello di allarme cui
sarebbe bene prestare attenzione. Il fenomeno infatti appare ormai non più ciclico, ma strutturale; è vero
che l’occupazione è un indicatore ritardato della ripresa, ma mai in passato era emerso un simile scollamento, oltre
che un tale lag temporale, rispetto all’andamento del ciclo. Forse per le maggiori imprese USA, che hanno
spostato parte della loro produzione in Paesi come la Cina, non sarà un problema – anzi, gli utili ne stanno
beneficiando – ma per l’economia nel suo complesso, attraverso il freno sui consumi, il problema sussiste eccome.

Per i neo-rialzisti, quelli angosciati sei mesi fa dalle psicosi catastrofiste e ora passati ad abbracciare l’ottimismo
più sfrenato, tutti questi elementi sono solo incertezze passeggere che con il tempo lasceranno il posto ad una
crescita su basi ancor più allargate – gli investimenti, l’occupazione, ecc. – e sostenibili. Sarà, ma per chi ottimista
lo era già da un anno a questa parte, e con il senno di poi fin troppo prematuramente, tutte questo entusiasmo
dell’ultima ora sa un po’ di contrarian indicator; motivo in più per coltivare maggiore cautela di quanta circoli tra i
presunti addetti ai lavori, soprattutto se si torna a dare uno sguardo alla vituperata “geopolitica”, che, a giudicare
da come vanno le cose in Medio Oriente, non sembra promettere nulla di buono.

*Michele Pezzinga e’ capo strategist di Eptasim