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L’Oriente è ancora rosso?

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Per molte settimane, tra settembre e ottobre, sulle televisioni americane sono comparsi spot elettorali democratici che avevano come unico soggetto la ricchezza di Romney. Il candidato repubblicano è stato presentato come immensamente ricco e anche la moglie, proposta sempre a cavallo in un maneggio, è stata usata dagli avversari politici per rafforzare l’immagine plutocratica del marito.

Poveri, i Romney, non sono. Hanno in tutto, secondo le stime più alte, 350 milioni di dollari (250 nei blind trust dei genitori e 100 nei trust dei figli). George Washington era però più ricco (550 milioni in dollari di oggi), e di somme ben maggiori dispose Kennedy. Benestanti, certo, ma poca cosa di fronte al miliardo abbondante della famiglia di Xi Jinping, futuro presidente cinese, e ai 2.7 miliardi degli stretti congiunti dell’attuale primo ministro Wen Jiabao. Arricchirsi è glorioso: lo slogan postmaoista di Deng è ancora perfettamente valido.

Mentre del resto l’Europa reagisce alla crisi dello stato assistenziale con una pressione fiscale sempre più alta e mentre l’America si appresta a decidere se seguirne l’esempio, la Cina si prepara ad andare nella direzione opposta. In Occidente si ama descrivere la Cina come una società sempre più in crisi, incerta sulle prospettive, divorata dalle disuguaglianze e dai conflitti sociali, prossima alla disintegrazione, in invecchiamento accelerato e destinata al collasso.

La Cina sta certamente affrontando una fase delicata, ma questi giudizi, più che il risultato di valutazioni obiettive, sono spesso la proiezione delle nostre paure, delle nostre invidie e di un perdurante complesso di superiorità. Si pensa cioè che la Cina dovrà per forza seguire la strada che abbiamo percorso noi e si desidera, più o meno consapevolmente, che abbia presto a pagare gli stessi pesanti prezzi che stanno toccando a noi.

Data l’importanza della Cina per la tenuta dell’Asia, dell’Africa, dell’America Latina, per le materie prime e per le nostre esportazioni (unico fattore di crescita che può compensare il calo costante dei consumi interni europei), proviamo a dare un’occhiata ad alcuni degli aspetti più critici.

Cominciamo con il più strutturale di tutti, la demografia. La politica del figlio unico è in vigore ormai da 34 anni e gli effetti si vedono da qualche tempo in tutta la loro evidenza. Per molti commentatori occidentali si tratta di un duplice disastro. Da una parte, si ragiona, c’è l’attentato a un fondamentale diritto umano, dall’altra la rarefazione di quell’abbondante forza lavoro, in particolare giovanile, che ha reso possibile l’impetuoso sviluppo del paese.

I cinesi vedono le cose in modo diverso. Da una parte fanno notare l’ipocrisia di un Occidente che parla di diritti umani conculcati e che però manda in giro per i paesi poveri agenzie a finanziamento pubblico che promuovono la più bassa natalità possibile. Dall’altra ritengono che avere evitato 300 milioni di nascite dal 1978 a oggi sia in realtà, in un mondo in cui le risorse sono sotto pressione, un titolo di merito che dovrebbe essere loro riconosciuto.

Valutazioni morali a parte, il punto di vista cinese è che la crescita, da qui in avanti, avrà una minore intensità di manodopera. L’immigrazione dalle campagne, che durerà ancora un paio di decenni, porterà nelle città 10-15 milioni di persone ogni anno e sarà sufficiente, insieme a un aumento dell’occupazione femminile, a garantire lo sviluppo. Quanto al welfare e ai suoi costi, va ricordato che la Cina sta cercando di costruirlo fully funded, non con lo scriteriato sistema euro-americano che nasconde sotto il tappeto decine di trilioni di passività future.

Un altro aspetto che inqueta non poco l’Occidente è il rallentamento della crescita. Diminuiscono gli investimenti dall’estero, l’edilizia di qualità è in brusca frenata, l’industria pesante soffre di sovracapacità, la borsa di Shanghai è ai minimi dal 2009. Si invocano misure espansive. Si chiedono alla Cina più spesa pubblica, più infrastrutture, più credito e un costo del denaro più basso. Tutte misure, come si può notare, che dovrebbero agire sul lato della domanda.

In effetti la Cina postmaoista, nei suoi 35 anni di storia, non ha disdegnato le misure keynesiane sul lato della domanda, ma non ne ha mai abusato. Ha cioè usato la spesa pubblica solo in tempi di crisi (dopo la crisi asiatica e dopo la Grande Recessione del 2008) e non ha mai aumentato la spesa corrente (con effetti strutturali permanenti) ma ha speso per infrastrutture. In questo modo il debito pubblico non è mai salito, a livello statale, oltre il 25 per cento del Pil.

La Cina ha però utilizzato con altrettanta ampiezza, quando ha avuto bisogno di dare impulso alla crescita senza pesare sui conti pubblici, misure dal lato dell’offerta, liberalizzazioni e privatizzazioni. La prossima grande spinta all’economia cinese, più che dall’edilizia popolare e da altre infrastrutture, verrà proprio su questo terreno. Le State Owned Enterprises, i grandi conglomerati pubblici, sono considerati dalla dirigenza del partito troppo potenti e poco efficienti e la consapevolezza della necessità di privatizzarli è ormai diffusa. Il problema è come. Buona parte del 2013 sarà speso nel dibattito sul modello di privatizzazione.

Gli interessi in gioco sono enormi e per parecchi mesi la discussione resterà sott’acqua. Ci sono i fautori di privatizzazioni alla russa, con la creazione di una élite di oligarchi vicini al partito. Ci sono poi i sostenitori di un azionariato diffuso, quelli di uno smembramento delle conglomerate e quelli favorevoli al modello coreano. È alta la probabilità che, una volta avviata la riforma, l’economia ne ricavi benefici significativi. Anche la borsa di Shanghai, nella quale il peso dei grandi carrozzoni pubblici è molto elevato, potrà tornare a salire. La debolezza del mercato azionario e il diffuso malessere che ne consegue sono del resto una preoccupazione, in questa fase, per la dirigenza cinese.

Il tema della finanza locale è un altro incubo ricorrente nella lettura occidentale della Cina. Le amministrazioni metropolitane e provinciali, abituate in passato a finanziarsi vendendo terreni agricoli ai costruttori, hanno problemi crescenti nel momento in cui il governo centrale ha deciso di bloccare gli eccessi dell’edilizia privata. È però indicativo dell’orientamento promercato prevalente che i mancati introiti non saranno coperti da maggiori tasse, ma dai canoni d’affitto dell’edilizia pubblica.

Quanto al quadro politico generale, non è un mistero che tra le élites serpeggi una grande inquietudine. Tutto il gruppo dirigente è stato vittima, in gioventù, della furia giacobina della Rivoluzione Culturale del 1966 che Mao, in difficoltà nel partito, scatenò facendo appello agli studenti, più manipolabili dei quadri operai riformisti. Quell’esperienza ha lasciato un segno profondo e continua a essere vissuta come la prova della fragilità del potere anche quando questo sembra solido e assoluto.

L’esperienza subita durante la Rivoluzione Culturale ha lasciato nei dirigenti attuali, e in quelli che stanno per subentrare loro, un’avversione viscerale per ogni forma di populismo. Bo Xilai, antropologicamente simile agli altri dirigenti (un figlio a Oxford, una ricchezza ingente) si è però macchiato proprio del peccato mortale di populismo. Per accelerare la sua carriera ha fatto appello alle nostalgie maoiste della parte più povera della popolazione e ha promosso forme di giustizialismo estranee alla mentalità postdenghista. Si spiega, in questo modo, la reazione rabbiosa degli altri dirigenti del partito e la sua rapida caduta in disgrazia.

Nonostante il nervosismo evidente, il controllo politico sul paese da parte del partito resta molto solido. Il gruppo dirigente è però perfettamente consapevole che una società civile sempre più sofisticata non potrà essere controllata in eterno con metodi grossolanamente autoritari. Nessuno ha in mente modelli occidentali (l’Occidente è visto come un esperimento fallito), ma ci sono alcuni passaggi che verranno presto attraversati mentre si delinea sullo sfondo una strategia di riforma politica.

Il primo passaggio è il ripristino di una qualche forma di certezza del diritto. Negli anni Novanta il partito stroncò sul nascere un inizio di autonomia da parte della magistratura. Il risultato è che oggi il giudice, prima di emettere una sentenza, va a chiedere alla commissione legale del partito locale come comportarsi. Gli avvocati, dal canto loro, rifiutano di difendere clienti invisi al partito. Il risultato, diritti umani a parte, è un prevalere dell’arbitrio che nuoce al regolare andamento degli affari.
Più avanti, sullo sfondo, si intravede una maggiore articolazione del potere politico. I modelli più discussi sono quelli di Hong Kong e Singapore.

A Hong Kong nulla avviene contro la volontà del partito, esattamente come nulla avveniva fino al 1997 contro la volontà della Corona britannica. La vivacissima società civile di Hong Kong gode tuttavia di autonomia amministrativa. Ci sono elezioni vere e ci sono schieramenti, ma questi sono organizzati su base corporativa o su singole questioni e non assumono mai un profilo ideologico o politico. Dal Guangdong (e in particolare da Shenzhen, vicinissima a Hong Kong) giungono già richieste di procedere in questa direzione.

Singapore è un passo ulteriore. Formalmente è una democrazia occidentale, con elezioni regolari e un partito di opposizione. Il partito di governo è però sempre lo stesso da mezzo secolo ed è un partito-stato assai pervasivo, che di fatto non mostra alcuna intenzione di lasciare mai il potere. Le libertà civili esistono, ma sono molto più limitate che in Occidente.

In sintesi, ci sono dunque ragioni per essere costruttivi sulla Cina e sulla sua capacità di proseguire sulla strada della crescita. Dati i tempi lunghi del rinnovamento in corso nel gruppo dirigente, tuttavia, non c’è da aspettarsi niente di clamoroso ancora per molti mesi. Il grande tema delle privatizzazioni non si tradurrà in misure concrete prima della conferenza economica dell’ottobre 2013.

In pratica la Cina non offrirà, nell’immediato, spunti rilevanti per un grande bull market delle borse asiatiche, ma darà loro un supporto di fondo più solido di quello che abbiamo visto negli ultimi mesi. Anche il renminbi, dopo la forte rivalutazione degli ultimi due anni, non offrirà particolari opportunità di guadagno, ma rimarrà una valuta solida e sicura che già sostituisce il dollaro in una parte crescente di transazioni commerciali interasiatiche.

Una Cina meno fragile di quanto spesso si pensi toglie un argomento importante ai teorici della tempesta perfetta che amano allineare un’ipotetica recessione fiscale americana, una ricaduta europea sempre dietro l’angolo e un atterraggio duro cinese. Il prossimo periodo si profila ricco di incognite e colpi di scena (il fiscal cliff, la Grecia, la Spagna, le elezioni italiane), ma la volatilità che senz’altro vedremo difficilmente si tradurrà in rotture e bear market importanti.