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L’INFLAZIONE C’E’, MA L’EURO LA NASCONDE

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L’ascesa dell’euro sopra quota 0,94 con il dollaro indica ormai una inversione di tendenza, rispetto al periodo in cui faticava a tenere la quota 0,90.

Molti pensano che la parità con il dollaro non sia lontana. Infatti la bilancia dei pagamenti degli Stati Uniti è in deficit, ma non vi è quell’afflusso di capitali alla Borsa americana che negli anni passati aveva consentito l’anomalia del dollaro superstar con un commercio estero passivo.

Già l’aumento di quattro-cinque punti nella quotazione dell’euro rispetto a inizio d’anno comporta una variazione del 2-2,5 per cento nel tasso di cambio, che si ripercuote nella stessa misura sui prezzi delle importazioni e delle esportazioni.

La conseguenza immediata è un raffreddamento della pressione inflazionistica nell’eurozona, tramite il ribasso dei costi delle materie prime e dei beni lavorati importati.

In Germania, secondo alcuni calcoli, al presente l’inflazione effettiva sarebbe ben al di sopra di quella ufficiale e rasenterebbe il 5 per cento: per effetto degli arrotondamenti dovuti al passaggio dal marco all’euro, delle pressioni salariali, del rincaro del petrolio.

E’ probabile che anche negli altri paesi europei l’aumento dei prezzi dovuto all’introduzione dell’euro sia maggiore di quello ufficialmente registrato. Senza il miglioramento della quotazione dell’euro sarebbe stato inevitabile un aumento del tasso di interesse da parte della Banca Centrale Europea.

Ne sarebbe stata danneggiata l’Italia, che ha un debito pubblico elevato. Il cambio favorevole, che ha facilitato le esportazioni europee, ora viene meno. L’Europa ha una economia dualistica: gli esportatori di certi settori, come le industrie tedesche dell’auto e della chimica, non hanno problemi di competitività. Per altri, ad esempio tessile e abbigliamento, le cose, nel breve termine, stanno diversamente.

Ma l’esperienza insegna che, nel medio e lungo termine, la sfida della competitività si vince con fattori strutturali, non con il tasso di cambio. E ai fini strutturali, sia per le imprese sia per la finanza pubblica, è meglio avere un tasso di interesse basso sulla base di una moneta robusta, che un alto costo del denaro come contropartita di una moneta debole.

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