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L’EURO E LA BOMBA DEI PIGS

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(WSI) – Il termometro che misura la febbre dell’euro si chiama spread, la differenza tra i tassi di interesse, in questo caso tra i tassi che pagano Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna sulle nuove emissioni dei loro titoli pubblici e quelli che paga la Germania. Ebbene quello spread, che fino a sei mesi fa era appena percepibile ora lo è tanto da far temere a qualcuno che l’euro possa non reggere. Per colpa dei ‘villani’ di Eurolandia, quei paesi le cui iniziali hanno fatto riscoprire alla stampa anglosassone l’acronimo PIGS, appunto Portogallo, Italia, (ma ora quella I sta più per Irlanda) Grecia e Spagna. Un acronimo non bello e scelto con malizia: pigs, in inglese, vuol dire maiali. Ma acronimo o no il fatto, ovvero quello spread che è di quasi un punto per la Spagna e il Portogallo, di 1,3 per l’Italia e di oltre 2 per la Grecia, è un monumento alle differenze che dieci anni di euro non hanno cancellato.

Ad accendere i fari sul monumento ci ha poi pensato Standard & Poor’s, l’agenzia di rating che ha messo sotto osservazione i debiti sovrani (così si chiamano quelli degli stati) ed ha ridotto il suo rating su quello della Grecia mentre metteva sotto ‘credit watch’ negativo quelli della Spagna, del Portogallo e dell’Irlanda.

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La ‘Tigre Celtica’ non rientra tradizionalmente nei ‘pigs’, ma la sua economia dopo un lungo galoppo che ha portato il reddito pro capite dei suoi abitanti ad essere il più alto d’Europa dopo quello del Lussemburgo, è ora tra le più malmesse, con la previsione di un crollo del pil del 4,5 per cento nel 2009, una disoccupazione che galoppa verso il 10 per cento e la prospettiva di un disavanzo pubblico che potrebbe arrivare al 9,5 per cento del prodotto interno lordo (secondo le previsioni del governo).

Tra spread che si allargano e credit watch negativi è comprensibile come l’argomento sia finito al centro dell’attenzione dei governi e degli investitori.

La questione è complicata, ma la si può riassumere così: lo spread segnala che il mercato percepisce l’investimento in titoli emessi da alcuni stati come più rischioso di quello in titoli emessi da altri, il che è normale, ma potrebbe diventare in qualche modo problematico visto che gli stati considerati più a rischio e quelli considerati meno a rischio utilizzano tutti in questo caso la stessa moneta, l’euro, e condividono tutti la stessa politica monetaria e valutaria, che è nelle mani della Banca Centrale Europea. Non potendo quindi usare l’arma della svalutazione, ai singoli paesi restano le politiche economiche, fiscali, del lavoro e del welfare e con quelle se la devono cavare.

Non è una novità, si va avanti così da dieci anni e l’euro ha retto benissimo, ma questo 2009, che sarà l’undicesimo dell’epoca dell’euro, non è un anno come gli altri, è il più difficile da oltre mezzo secolo a questa parte e le finanze pubbliche saranno messe dovunque a dura prova. Di qui la selettività degli investitori, l’attenzione delle agenzie di rating e i dubbi di qualcuno sui rischi di tenuta dell’Unione Monetaria.

Per l’euro è un po’ la prova finale, quella che la farà diventare definitivamente una valuta consolidata, il cui futuro nessuno metterà più in discussione. Forse neanche gli inglesi, che ne sono i critici più ostinati.
Ma siamo solo all’inizio della prova, e non è un inizio facile. Le economie dell’area vanno tutte male, con una inconsueta sincronia, ma non vanno male nello stesso modo e, soprattutto, affrontano la discesa da diversi punti di partenza. Italia e Grecia hanno un debito pubblico molto elevato, Grecia, Spagna e Portogallo hanno forti deficit di bilancia dei pagamenti, in Spagna, Portogallo e Irlanda la crisi economica è particolarmente acuta, più che in Italia e negli altri paesi di eurolandia.


La Spagna e l’Irlanda hanno inoltre una struttura produttiva sbilanciata dal peso eccessivo dell’edilizia, il settore più colpito in questi mesi. L’Irlanda paga anche il peso della finanza (altro settore in grande difficoltà) sulla sua economia e il fatto che negli ultimi anni è diventata una base produttiva per le multinazionali americane in Europa, multinazionali che ora sono in rapida ritirata, come dimostra il caso della Dell che ha chiuso il suo stabilimento di Limerick.

Tutti sanno che nel 2009 e probabilmente anche nel 2010 i deficit pubblici di tutti, dagli Stati Uniti alla Germania fino al piccolo Portogallo, sono destinati a salire vistosamente, e che nel 2009 le emissioni di titoli di stato saranno almeno il doppio di quelle degli anni precedenti (350 miliardi di euro nella zona dell’Unione Monetaria solo nel primo trimestre dell’anno). Di fronte a questo scenario l’investitore valuta quali sono le possibilità che ciascun paese avrà di sostenere un maggiore debito e dà un certo prezzo al rischio che si assume comprandone i titoli.

«Stiamo passando da un estremo a un altro commenta Alexander Kockerbeck, lead analist di Moody’s per l’area dell’euro fino a pochi mesi fa le differenze dei tassi tra le emissioni dei vari paesi si erano completamente appiattite, come se non ci fossero differenze tra le situazioni delle rispettive economie. Il mercato non dava un prezzo al rischio e non sanzionava i paesi meno virtuosi. Ora è esattamente il contrario, c’è una grande avversione al rischio e le differenze vengono esaltate. In un certo senso è un ritorno alla normalità, perché è normale che i mercati sanzionino le politiche meno sostenibili e più rischiose. Probabilmente in questo oscillare del pendolo c’è un po’ di eccesso che credo nei prossimi mesi rientrerà».

Conta anche il punto di riferimento, che nell’area è la Germania, i cui titoli sono i più liquidi e in una fase in cui la liquidità è particolarmente importante godono di uno sconto per questo. Il che da un lato è un vantaggio per tutti, perché abbassa la base di partenza delle valutazioni, mentre dall’altro evidenzia le differenze attraverso i maggiori spread.

Gli analisti di Moody’s sono in questa fase più prudenti di quelli di Standard & Poor’s, non hanno abbassato rating o messo singoli paesi sotto credit watch negativo, ritengono che in un contesto in cui i conti pubblici di tutti peggioreranno, anche quelli che hanno una situazione di partenza più difficile abbiano la possibilità di reggere l’urto della crisi senza che la loro situazione diventi insostenibile. Spagna, Portogallo e Irlanda hanno debiti pubblici molto bassi in rapporto al pil, hanno quindi maggiore spazio di manovra e più tempo davanti per reagire alla crisi.


A Moody’s hanno calcolato che anche nel caso di tre anni di crescita negativa del 2 per cento il debito pubblico spagnolo arriverebbe al massimo al 55 per cento del pil (dal 36 per cento attuale). Italia e Grecia hanno margini di manovra molto più ridotti, ma l’Italia ha una struttura economica più solida ed equilibrata e un debito privato assai più contenuto. «Per l’Italia dice Kockerbeck è importante riuscire a conservare un avanzo primario e una crescita dell’economia anche solo in termini nominali (al lordo cioè dell’inflazione), e penso che possa riuscirci».

Quanto all’euro, l’ipotesi che qualche paese possa uscirne non viene considerata realistica. Non è nell’interesse di nessuno e ci sono gli strumenti per intervenire nel caso in cui qualche paese si trovasse di fronte all’impossibilità di finanziare il suo deficit. «Quello che succederà dice ancora Kockerbeck è semmai che si tornerà a parlare di politiche fiscali comuni. Se l’Europa dovrà farsi carico dei problemi di bilancio di qualcuno dei suoi membri mi sembra più probabile che si scelga di andare verso una politica fiscale comune piuttosto che abbandonare l’euro, che sta dimostrando proprio in questa crisi la sua importanza fondamentale per tutti i paesi».

«Un rischio semmai commenta un analista che non vuole essere citato potrebbe sorgere se ci fosse una competizione accentuata per accaparrarsi il risparmio mondiale e i paesi più forti potrebbero avere interesse a cacciare dalla competizione quelli più deboli. Ma questo rischio io per il momento non lo vedo, perché ci sarà pochissima concorrenza da parte di hedge fund, private equity e altre forme di investimento, e i titoli pubblici avranno ampio spazio. La mia conclusione è che non ci sarà un problema di sottoscrittori, per alcuni ci sarà invece un problema di tassi più alti da pagare». Come dire che la nottata forse, probabilmente, si passerà, ma il risveglio sarà assai complicato da gestire.

E’ la linea seguita dai commentatori più avveduti, i quali prevedono grande afflusso di capitali verso i titoli di stato finché durerà la crisi e poi la fuga verso investimenti privati più remunerativi quando l’economia riprenderà. Si vedrà allora chi avrà speso meglio i soldi che ora sta chiedendo al mercato e avrà la forza di sostenere il debito contratto, e chi invece quella forza non l’avrà. Per i ‘pigs’, e non solo per loro, sarà quello il momento della verità.

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