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L’etica? Questione di ormoni

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Roma -Chiunque avesse della morale un’idea puramente culturale (per esaltarla come apoteosi della razionalità umana o come rivelazione del divino, oppure per appiattirla sul moralismo e irriderla a colpi di «politicamente scorretto»), farebbe bene ad astenersi. Il nuovo libro di Patricia S. Churchland Neurobiologia della morale (Raffaello Cortina) non può che deludere aspettative simili, e in generale ogni lettore impermeabile a possibili spostamenti di baricentro del proprio assetto cognitivo.

La prospettiva di fondo del libro — ricondurre la genesi della morale nel «tempo profondo» dell’evoluzione — non è certo inedita: stupisce, anzi, che la Churchland non ne citi l’apripista, il grande (e dimenticato) filosofo tedesco Paul Rée, il cui capolavoro, L’origine dei sentimenti morali (uscito nel 1877, solo sei anni dopo L’origine dell’uomo di Charles Darwin) influenzerà tutta l’ultima fase del pensiero di Friedrich Nietzsche. Ma inediti, per molti versi, sono gli affinamenti e le conferme della visione darwiniana, che la Churchland attinge dalle neuroscienze, dalla genetica, soprattutto dalla (neuro)endocrinologia.

La lunga sequenza di ingresso, infatti, ci porta proprio a un ormone, l’ossitocina, decisivo nel lento, graduale evolvere dei mammiferi da animali sociali in animali morali. Presente nelle specie terrestri già 700 milioni di anni fa — a regolazione del rapporto tra acqua e minerali — questa piccola stringa di aminoacidi presiede, a partire da circa 350 milioni di anni fa, non solo alla fisiologia del parto e dell’allattamento, ma anche a quella dell’attaccamento, in un’orchestrazione biochimica che include altri ormoni (come la vasopressina) o oppiacei endogeni (come le endorfine) per discriminare il dolore dal piacere, le sensazioni di fiducia/ affetto da quelle di paura/allerta, incise nel cervello per le funzioni di fuga/ predazione.

Ed è proprio questo passaggio dalla «cura del sé» a quella della prole (più tardi esteso, con ulteriore espansione, anche a individui extraparentali) a costituire la radice remota della moralità. Lo vediamo bene—in pagine tra le più toccanti del libro — nell’esempio della mamma-topo, che include nel proprio spazio biologico quello dei piccoli da nutrire-pulire-proteggere, preconfigurando così il passaggio dall’egoismo auto-conservativo a strategie di mutualismo e cooperazione.

Differenti livelli di ossitocina spiegano in questo modo le differenze tra specie più sociali (babbuini e suricati) emeno sociali (orsi neri e oranghi), anche se il quadro è più sfumato, perché se certe specie attuano sempre la cura extraparentale (come certi lemuri), persino gli «asociali» scimpanzé arrivano ad adottare degli orfani. Il punto è il condizionamento ambientale, che preme su comportamenti più o meno cooperativi secondo diverse esigenze adattativo-riproduttive: i «topi della prateria» (monogami e solidali) si distinguono da quelli di «montagna» (promiscui e solitari) in quanto l’essere più esposti alla predazione dei falchi li obbliga a strategie più altruistiche.

Anche nella moralità «umana» — insieme continua e discontinua rispetto a quella di altri animali — l’ossitocina ha un peso rilevante. Da un lato, un suo deficit (legato per esempio a un mutante del gene rs 53576, adibito ai recettori della sostanza) implica una predisposizione a minore socialità, com’è stato riscontrato (agli estremi) sia negli psicopatici che nelle sindromi autistiche; dall’altro, diversi esperimenti hanno mostrato come l’inalazione di ossitocina via spray porti notevoli incrementi nel sentimento della fiducia.

Ma una simile incidenza, va da sé, è solo un tassello in dinamiche più estese e intrecciate. A livello neurofisiologico, per esempio, l’anaffettività di un serial-killer va ricondotta anche a deficit strutturali nel cervello emotivo; a livello neurobiologico, la stabilizzazione di un rapporto di coppia vede l’ossitocina agire in sintonia con la dopamina (adibita, tra l’altro, a meccanismi di apprendimento e ricompensa); e a livello genetico, va ricordata la polivalenza nei due sensi, dato che ogni gene partecipa a più funzioni e ogni funzione convoglia l’azione di molti geni: basti dire che nel moscerino della frutta gli esemplari più aggressivi si differenziano dai meno aggressivi per l’attività di circa 80 geni. E a maggior ragione, questa avvertenza vale per una delle facoltà cognitivo-morali più elaborate di cui siamo dotati, la capacità (impropriamente chiamata «empatia») di «leggere» nella mente dell’altro per interpretarne intenzioni, scopi, emozioni e credenze, e quindi predirne il comportamento.

In passaggi molto convincenti, la Churchland dimostra come sia fuorviante la tendenza a ricondurre una simile capacità ai «neuroni specchio» (quei neuroni in area motoria e premotoria della corteccia che si attivano sia quando un individuo esegue un’azione, sia quando vede la stessa azione svolta da un simile); e non perché non si tratti di una scoperta importante (tutt’altro), ma perché l’identificazione di un’azione non coincide con la sua intenzionalità, né — men che meno — con il significato e l’emotività collegati. I neuroni specchio isolati (senza l’attività simultanea di molti altri circuiti) possono darci solo il fantasma di un’azione dotata di senso.

Alla fine del percorso tracciato dalla Churchland, vediamo diversi livelli di continuità-contiguità tra natura e cultura, a smentita di un diaframma ormai vuoto: quello evoluzionistico tra socialità emoralità; quello neurobiologico (già intuito da Hume e dimostrato da Antonio Damasio) tra «ragione» e «passione», tra corteccia cerebrale e cervello emotivo nelle scelte etiche; e quello tra fatti e valori, tra essere e dover essere.

In questa prospettiva, «norme, leggi e regole» non sono astrazioni assolute, eleganti e astoriche come algoritmi, ma solo aggiustamenti adattativi via via più complessi al mutare dell’ambiente, delle aggregazioni sociali e dei conflitti (come nel passaggio dai piccoli gruppi di cacciatori- raccoglitori alle attuali società urbane). Ogni nostro adattamento — individuale e di gruppo — non cerca mai la soluzione migliore, ma solo una di quelle adeguate. E il senso morale — anche se crediamo il contrario — non fa eccezione.

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