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L’ERRORE DELL’ISTAT. GLI ERRORI DEL GOVERNO

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L’inflazione torna a far parlare di sé e sollecita alcune considerazioni. La prima riguarda l’Istat.

L’inflazione da giugno scorso è in costante ascesa, salendo dal 2,2 di quel mese al 2,8 per cento di dicembre (dati tendenziali di un mese sul mese dell’anno precedente). A gennaio l’Istat aveva rilevato una leggera diminuzione e aveva collocato il dato tendenziale al 2,7 per cento: ma questo era frutto di un’errata rilevazione.

È noto cosa è successo. Il 7 gennaio il ministero della Salute ha pubblicato il nuovo prontuario farmaceutico che dovrebbe comportare una riduzione media del 4 per cento dei farmaci rimborsabili da parte del Servizio sanitario nazionale in base a un nuovo criterio di calcolo. Tenuto conto del peso dei farmaci sull’indice dell’inflazione (la sanità rappresenta il 7,2 per cento dell’indice complessivo) il calo di quei prezzi faceva diminuire di quasi lo 0,1 per cento l’inflazione di gennaio su dicembre, che scendeva così al 2,7 per cento.

Il problema nasce dal fatto che quel provvedimento del 7 gennaio è entrato in vigore il 16 del mese, mentre le regole attualmente utilizzate dall’Istat prevedono che il periodo di rilevazione vada dal 16 del mese precedente al 15 del mese in corso e quindi la riduzione dello 0,1 per cento non doveva andare imputata a gennaio, ma a febbraio.

L’errore è stato denunciato dalle associazioni dei consumatori. Anche se non mi sembra un motivo sufficiente per richiedere le dimissioni del vertice dell’Istituto, che tra l’altro ha prontamente ammesso il proprio errore, va tuttavia rilevato che non è una «svista» ininfluente, perché una variazione attribuita a gennaio piuttosto che a febbraio può avere effetti diversi sul calcolo dell’inflazione su base annua che è quella sulla cui base si calcolano le indicizzazioni di contratti salariali, di affitto, eccetera.

La seconda considerazione riguarda la ripresa dell’inflazione in presenza di un’economia stagnante. Gli incrementi tendenziali più rilevanti si rinvengono in settori come servizi (4,4%), alberghi e ristoranti (4,1%), trasporti (3,9%), che sono settori chiusi alla concorrenza internazionale. Gli affitti sono aumentati molto (secondo un’indagine del sindacato inquilini della Cisl sono aumentati mediamente del 28 per cento all’anno). Molto probabilmente questo aumento è conseguenza dell’aumento dei valori immobiliari, frutto a sua volta del crollo di Borsa e della rinnovata preferenza per il mattone da parte dei risparmiatori delusi dalla Borsa mobiliare. Quando il differenziale di crescita tra canone libero e canone calmierato (che presenta benefici sulla durata contrattuale) è rilevante, la percentuale di affittuari che offrono il canone calmierato decresce. Questo è un argomento che dovrebbe indurre delle considerazioni legislative.

Il terzo argomento riguarda l’assenza di politica anti-inflazionistica del governo. La politica dei redditi e la disindicizzazione salariale hanno funzionato in un periodo di forte inflazione importata dalla svalutazione del cambio. Oggi non è più questa la causa dell’inflazione e bisogna pensare a nuovi strumenti.

Una strada da battere potrebbe esser quella di un monitoraggio delle categorie più inflazionistiche ed esercitare una «moral suasion» nei loro confronti attraverso le associazioni di categoria. Si potrebbe anche pensare all’uso deterrente di un inasprimento degli studi di settore per la definizione del loro reddito imponibile. Un’altra strada da battere potrebbe essere una politica delle tariffe e delle imposte che persegua finalità anti-inflazionistiche. Come è noto il prezzo della benzina è dato dal costo di produzione più le accise e su questo valore si applica l’Iva. A fronte di un aumento dei prezzi del greggio cresce l’ammontare del prelievo e della doppia imposizione. L’Iva è difficilmente modificabile anche a motivo di armonizzazione a livello europeo di questa imposta. Tuttavia è possibile operare una sterilizzazione del gettito delle accise, in modo da tenere costante l’ammontare del prelievo fiscale (accise più Iva) e ridurre l’effetto inflazionistico di un aumento del greggio sul prezzo alla pompa.

L’ultimo argomento riguarda gli effetti distributivi dell’inflazione. La Spi-Cgil ha commissionato al Cer uno studio sul peso dell’inflazione sul reddito dei pensionati. Siamo di fronte al solito problema che esistono tante inflazioni quanti i panieri dei consumatori. La struttura del consumo dei pensionati è tale che per questa categoria l’inflazione erode il reddito in maggior misura rispetto al valore medio (per il 40 per cento dei pensionati l’erosione va dal 3 al 4,5 per cento). Una volta le pensioni erano indicizzate ai salari, quindi erano indicizzate sia al costo della vita sia alla dinamica della produttività. Oggi non sono più legate ai salari e solo le pensioni più basse (fino al doppio del minimo) sono totalmente indicizzate al costo della vita, le altre lo sono solo in parte e in modo regressivo. All’interno della riforma delle pensioni dovrebbe trovarsi spazio (a fronte di un allungamento dell’età pensionabile) anche per un effettivo mantenimento del valore delle pensioni, quantomeno quelle medie, che le protegga totalmente almeno dall’inflazione nominale.

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