Società

L’economia Usa vista da uno sempre piu’ conservatore, sempre piu’ anti-pessimista

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(WSI) – Maggio è stato il mese della disintegrazione di Eurolandia. Giugno è stato il mese del double dip globale. Ci siamo regalati due stress test sui nostri portafogli e sui nostri nervi. Ora i test sono terminati. Sì, fino a fine mese riempiremo le giornate parlando dello stress test sulle banche europee, ma tutti conosciamo bene la differenza tra un esame sul campo e uno di laboratorio. E’ la differenza tra il sottoporsi a un elettrocardiogramma in cui si corricchia su un tapis roulant sotto gli occhi attenti di un dottore e di un tecnico e il rientrare a casa dopo una vacanza e scoprire che sono arrivati i ladri che hanno devastato tutto e hanno portato via le password e i codici di conti e carte di credito.

Eurolandia, quella che doveva disintegrarsi e precipitare nella guerra civile, è di gran moda. L’euro, la valuta freak destinata fin dalla nascita a una vita breve e stentata, non solo esiste ancora ma non sembra nemmeno molto avviato verso la mitica parità con il dollaro. Quei gestori londinesi con un ego ipertrofico che dichiaravano in maggio di voler fare saltare l’euro dovrebbero avere dedicata un’aula del parlamento di Strasburgo o un’ala del Berlaymont. Grazie al loro impegno l’Europa ha scoperto di credere in se stessa più di quanto non pensasse, ha rafforzato il patto di stabilità, ha delegato poteri di politica economica a Bruxelles e ha perfino alzato, qua e là, l’età per andare in pensione.

Oggi agli euroscettici non restano che la Grecia e le Landesbanken. La prima viene invitata quasi istericamente a fare default, e subito, ma al massimo vedremo a un certo punto un riprofilamento del debito contestuale a un impegno delle banche creditrici di tenersi la carta per qualche anno. Tutto soft, in modo da non dare alle agenzie di rating l’appiglio per proclamare un default formale.

Quanto alle Landesbanken, è difficile immaginare una Germania che si fa in quattro per salvare la Grecia per poi abbandonare a se stesse le banche regionali tedesche, legate in modo stretto non solo ai poteri locali, ma soprattutto ai partiti di tutto lo spettro politico. Forse, nell’immediato, c’è più da temere per il traballante governo spagnolo, ma è noto che i Popolari sarebbero ancora più duri di Zapatero nell’aggredire il disavanzo.

La resurrezione di Eurolandia sarebbe già stata festeggiata in giugno se non fosse intervenuto il double dip. Parliamo del double dip immaginato, non di quello reale. Succede sempre, del resto. Non appena la crescita rallenta e passa, come nel caso americano, da una velocità annualizzata del tre per cento al livello attuale compreso tra l’uno e il due, c’è sempre qualcuno che si alza a tirare una riga e a dire che la prossima tappa è lo zero e quella successiva è meno due. In realtà, nella grande maggioranza dei casi, rallentamenti di questo tipo rimangono tali ed evolvono in successive riaccelerazioni. Sono invece molto più rari i rallentamenti che preludono a recessioni, in particolare subito dopo che ce n’è già stata una.

Il recupero degli ultimi giorni è segno di un ritrovato equilibrio mentale. I mercati hanno lucidità mentale solo quando hanno posizioni compatibili con i livelli di rischio che sono in grado di accettare. Ad aprile erano troppo pesati, in maggio e giugno hanno venduto e alla fine si sono trovati troppo scarichi. In luglio hanno ricomprato in fretta e ora sono solo mediamente carichi e quindi in grado finalmente di leggere bene la realtà, nelle sue luci e nelle sue ombre.

Le ombre americane le ha descritte con perfidia ed efficacia Feldstein. Se togliamo lo stimolo fiscale e la ricostituzione delle scorte il 3 per cento di crescita del primo e del secondo trimestre si riduce allo 0.8. Se poi consideriamo che lo 0.8 è una velocità annualizzata, per avere la crescita trimestre su trimestre dobbiamo dividerlo per quattro. Insomma, il primo e il secondo trimestre hanno avuto una crescita della domanda finale dello 0.2 per cento ciascuno, praticamente niente.

Feldstein è sempre molto pessimista (pensiamo a come sarebbe andata se fosse stato nominato governatore della Fed invece di Bernanke) e in più è molto critico verso gli aumenti di tasse che il Congresso si prepara a varare dopo le elezioni di novembre. Inoltre è poco generoso quando guarda con disprezzo a spesa pubblica e scorte, che da che mondo è mondo sono la componente più importante della prima fase di un ciclo di espansione. Ha però ragione quando illumina con una lampada al neon il pallore esangue della domanda finale americana, mai così bassa in un ciclo di ripresa.

Il dibattito su questo pallore ha toni aspri. Non sono solo i keynesiani radicali come Krugman, che accusa la Fed di totale inettitudine, a chiedere di fare di più, ma anche economisti stimati ed equilibrati come Mark Zandi (che è stato consigliere economico nella campagna di McCain). Dal canto suo Jan Hatzius di Goldman Sachs dice che ci sarebbe bisogno di un taglio dei tassi di 100 punti base, che corrispondono nel suo modello a 5 trilioni di acquisti di titoli da parte della Fed (ogni trilione equivale a 20 punti base). Hatzius è il primo a capire che i mercati non capirebbero e si spaventerebbero e si rassegna quindi a un crescita debole per il resto dell’anno e a un permanere di un livello di disoccupazione elevato ancora per molto tempo.

In effetti l’America a fine anno tornerà ai livelli di Pil precedenti la crisi, ma con otto milioni di occupati in meno. Per le singole imprese è un risultato straordinario che va tutto in utile netto (dall’anno prossimo andrà anche in tasse). Per il sistema è un grosso problema. Se il Pil, come è probabile, crescerà poco, questi otto milioni di persone non verranno più riassorbiti, se non in minima parte, e le loro capacità professionali diventeranno rapidamente obsolete e inutilizzabili.

Se così sarà, il Nairu si alzerà (il Nairu è la percentuale di disoccupati che fa salire l’inflazione) e da metà decennio in avanti, come ha scritto Neal Soss di Credit Suisse, potremmo vedere una ripresa dell’inflazione salariale anche in presenza di un’alta disoccupazione. Quella che oggi ci sembra un’esplosione di produttività si trasformerà allora in un’erosione progressiva.

Chi si oppone a politiche monetarie ulteriormente espansive viene spesso riduttivamente identificato come la solita Germania. In realtà la dignità intellettuale di questa scuola di pensiero è almeno altrettanto alta di quella dello schieramento pro-crescita. E’ una linea condivisa da parecchie banche centrali dell’Europa del nord e dell’est, dal Canada e dalla Banca dei Regolamenti Internazionali e ha in Hoenig una quinta colonna autorevole nel board della Fed. La tesi di fondo è che i tassi a zero provocano nel tempo distorsioni crescenti e cattiva allocazione delle risorse e minore crescita. Gli zombie riescono a mantenersi in piedi a spese di nuovi soggetti che potrebbero creare ricchezza, non distruggerla.

In un contesto globale fragile una certa biodiversità culturale può essere preziosa. Va anche considerato che le due scuole di pensiero, quando passano dai proclami alla realtà, si comportano con grande prudenza. I risanatori come la Germania si muovono con piccoli passi e gli espansivi come gli Stati Uniti si muovono con pacchetti fiscali sempre più piccoli (come quello che sarà approvato la settimana prossima per estendere la durata del sussidio di disoccupazione). La Fed, dal canto suo, è in uno stato di assoluta immobilità e manda a dire che non ha intenzione di cambiare. Bernanke si mantiene da molto tempo silenziosissimo e, quando parla, parla d’altro.

In pratica, dunque, i policy maker resteranno alla finestra per i prossimi mesi con l’intenzione di capire quello che succede. Economia e mercati dovranno arrangiarsi da soli e saranno sostenuti solo in caso di grave pericolo. Fine degli incentivi per case e cose, fine della ricostituzione delle scorte, fine dei sostegni fiscali. Un grande esperimento.

Le borse hanno iniziato a farsi una ragione della crescita bassa e hanno capito che è cosa diversa dalla recessione. Non è però nemmeno il paradiso in terra ed è per questo che il potenziale del rialzo in corso, una volta ultimate le ricoperture degli short, resterà piuttosto modesto. Sarà semmai verso fine anno che si potrà vedere qualcosa di più, non tanto per motivi stagionali, quanto per una probabile riaccelerazione cinese.

Lo spazio esiguo di rialzo per gli indici accresce l’importanza della scelta dei settori. Nonostante il recupero degli ultimi giorni i settori più penalizzati in maggio e giugno (ciclici e banche) rimangono quelli che hanno nel breve maggiori possibilità. Petrolio e finanza sono stati i settori più colpiti dalla politica, ma da qui a novembre ci sarà solo campagna elettorale. Con sanità, riforma delle banche e moratoria sul petrolio nelle acque profonde Obama ritiene di avere fatto abbastanza per potere dire agli elettori di essersi dato da fare. Vista dalle borse, l’idea di qualche mese senza interventi della politica è positiva.

L’euro ha ancora qualche spazio di recupero. L’indebolimento del dollaro darà sostegno alle materie prime e ai titoli ad esse legati. La buona performance dell’economia europea (quanto meno rispetto alle aspettative) dura già da un trimestre ma è stata finora offuscata dalla crisi del debito sovrano.

L’industria tedesca sta attraversando un momento molto favorevole e governo e Bundesbank sono molto ottimisti. Fin troppo, forse, visto il loro track record. Il loro sentiment, infatti, tende a essere un indicatore coincidente o addirittura ritardato. Deve essere un fatto culturale. Per i tedeschi sono credibili solo i dati verificati e su questi dati si devono basare le politiche, non sulle sempre discutibili ipotesi sul futuro. Anche per questo la Bce tende a essere sempre leggermente dietro la curva.

*Questo documento e’ stato preparato da Alessandro Fugnoli, strategist di Kairos Partners SGR ed e’ rivolto esclusivamente ad investitori istituzionali ovvero ad operatori qualificati, così come definiti nell’art. 31 del Regolamento Consob n° 11522 del 1° luglio 1998 e successive modifiche ed integrazioni. Le analisi qui pubblicate non implicano responsabilita’ alcuna per Wall Street Italia, che notoriamente non svolge alcuna attivita’ di trading e pubblica tali indicazioni a puro scopo informativo. Si prega di leggere, a questo proposito, il disclaimer ufficiale di WSI.

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