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“Io in missione su Marte, ma con i piedi ben piantati per Terra”

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Roma – Il giorno dell’«atterraggio», a fine missione, è stato il migliore della mia vita: ho potuto finalmente parlare con altre persone, mangiare le cose che desideravo da mesi, sentire il sole, il vento, la pioggia».

Per Diego Urbina, ingegnere italo-colombiano di 28 anni, e per i suoi cinque compagni d’avventura è stato un po’ come tornare da un vero e proprio viaggio spaziale. Sono i protagonisti dell’esperimento «Mars 500», condotto dall’Agenzia Spaziale Europea assieme all’Istituto per Problemi Biomedici di Mosca (IBMP), che ha visto Diego e i suoi soci astronauti chiusi per 520 giorni nei quattro moduli cilindrici (tre per l’astronave principale, uno per simulare l’atterraggio marziano) di un’astronave che si trovava presso il centro di ricerca russo. Una nave spaziale simile a quelle che in futuro dovranno inviare i primi equipaggi su Marte e che, pur non essendosi mai staccata da terra, ha rappresentato uno dei più completi (e riusciti) esperimenti finora realizzati in vista del viaggio verso il Pianeta Rosso.

La missione è terminata lo scorso novembre: «Dopo un mese a Mosca per gli esami medici, ho trascorso un altro mese assieme alla mia famiglia, e mi sono rimesso in contatto con la natura – dice Diego Urbina -: sulla spiaggia, facendo subacquea, godendomi ogni alba e tramonto. E poi ho trascorso ore con i miei amici, loro raccontandomi le cose che mi sono perso e io spiegando loro le mie avventure “su Marte”. È stato bellissimo».

Già, perché i cinque protagonisti di Mars 500 (oltre al nostro Diego, c’erano un francese, tre russi e un cinese), in quei 520 giorni che sono la durata standard di una vera missione a Marte, erano in isolamento, come in un vero viaggio spaziale: «Non avevamo Internet né telefono – spiega Diego – ma solo un servizio di videomessaggi verso il controllo missione, e messaggi di testo che il personale di supporto inviava ai nostri cari tramite Internet».

Un test quindi davvero unico, che Diego Urbina ci racconta con l’entusiasmo di chi spera di poter davvero volare su Marte: «Il mio sogno è andarci, visti i tempi non so se ci andrò io o qualcun altro, ma sono certo che ci andremo come civiltà, e voglio continuare a lavorare per far sì che quel giorno arrivi presto. Comunque è già una gran bella soddisfazione poter dire che ho contribuito a questa impresa».

Dopo il lungo periodo trascorso per la missione è facile avere problemi di riadattamento alla realtà: «Benché si lavori molto, la vita dentro una navicella può diventare molto monotona e con poche sorprese». Nei 520 giorni di isolamento i sei di Mars 500 hanno comunque avuto molto da fare: hanno compiuto svariati esperimenti scientifici e non sono mancate simulazioni d’emergenza: «C’è stata una settimana in cui ci hanno tagliato tutte le comunicazioni simulando un malfunzionamento dovuto a una tempesta solare. È stato il momento in cui siamo rimasti più isolati dal mondo: gli psicologi volevano testare se rimanevamo tranquilli. Loro sono rimasti sorpresi perché noi abbiamo colto la situazione in un modo molto costruttivo, e abbiamo approfittato per organizzarci meglio, eravamo più autonomi».

Una situazione simile si è ripetuta quando è stata tagliata l’elettricità: «Mentre si sistemava la situazione, dovevamo rimanere calmi, salvare le provvigioni e aspettare. Abbiamo fatto velocemente i conti e abbiamo visto che avevamo abbastanza ossigeno per sopravvivere la notte. Noi non sapevamo che si trattava di una simulazione: era molto reale, infatti ci hanno messo diversi giorni a convincerci del fatto che era stato solo un esperimento».

Pur essendo metà italiano e metà colombiano, Diego Urbina è molto legato a Torino. «La considero la mia città – dice – anche se non ci sono nato. Ci sono andato a vivere quando avevo 19 anni, quindi ha avuto un ruolo decisivo nella mia formazione come persona e come ingegnere».

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