Società

INVECE DI TRUCCARE APPALTI

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(WSI) – Da quando il presidente Barack Obama ha detto di aver visto l’inizio della fine della recessione (insomma, la coda dello scoiattolo), i nostri ministri hanno un’aria più sorridente e nei telegiornali della sera si muovono con maggior scioltezza e sicurezza. Sentono vicino il momento in cui anch’essi potranno dichiarare finita l’emergenza e tirare fuori le bottiglie di champagne che hanno messo in frigorifero da settimane. Ancora qualche mese, poi tutto sarà finito e si potrà tornare alla vecchia vita (e alle vecchie abitudini).

In realtà, come sempre, i calcoli dei nostri politici sono fuori dal mondo. E per una serie di ragioni.

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1 – Intanto serviranno ancora parecchi trimestri (3-4, come minimo) prima di poter essere fuori davvero dalla tempesta. E in un tempo così lungo può succedere di tutto. C’è il caso, insomma, che quelle bottiglie di champagne debbano invecchiare ancora di più in frigorifero.

2 – Ma questo è quasi solo un particolare, e forse nemmeno tanto importante. Quest’inverno abbiamo avuto tanta di quella paura che un mese in più o un mese in meno dentro la recessione non fa molta differenza. La questione vera è un’altra. Ormai da una decina di anni l’Italia cresce, di fatto, quasi zero. Il suo Pil, cioè, non aumenta per niente o cresce di pochissimo. Il che significa che ogni decina d’anni siamo più “poveri”, rispetto ai nostri vicini europei, del 10-20 per cento. Da anni, cioè, questo è un paese che si va impoverendo a ogni stagione e succede perché non si riesce a farlo decollare.

Perché i vari governi (abili, a sentire loro) non sanno innescare una strategia di crescita. E non riescono a farlo per la semplice ragione che sono sempre prigionieri delle mille e più corporazioni che da tempo immemorabile soffocano l’Italia. Il simpatico Bersani aveva provato (insieme a Prodi) a tirare qualche sasso in piccionaia e a liberare un po’ di energie, ma si è fatta subito marcia indietro. Le corporazioni sono potenti e, soprattutto, votano. Quindi vanno lasciate in pace.

Poi si scopre che l’Italia è un paese bloccato, ma che importa: al massimo Tremonti distribuirà un po’ di social card. E così, anno dopo anno, ci avviamo a diventare uno dei paesi (relativamente) più poveri fra i Grandi europei. Poi ci diamo grandi arie e ci impicciamo in qualsiasi controversia internazionale, ma la realtà vera rimane quella appena descritta: stiamo diventando sempre più poveri, rispetto agli altri. E cominciamo a far ridere. I nostri ministri, che aspettano con impazienza di stappare lo champagne di fine-crisi, ovviamente di questo non parlano.

3 – La terza questione è ancora più seria. Da questa crisi si uscirà (probabilmente nel 2011) con un debito pubblico intorno al 120 per cento del Pil, esattamente dove ci trovavamo agli inizi degli anni Novanta. Non si tratta di un livello di debiti sopportabile, anche perché finiremo per spendere delle cifre paurose solo per il servizio interessi. E quindi è inevitabile che, alla fine, qualcuno debba mettere mano alla spesa pubblica italiana.

In termini ancora più chiari: alla fine di questa crisi il sistema di welfare italiano dovrà essere rivisto, e in modo pesante. Ma anche la macchina dello Stato italiano dovrà essere rivista. Tutta la costruzione barocca di comuni, province, regioni andrà buttata all’aria e sostituita con qualcosa di più semplice. In queste condizioni, avere stabilmente 700-800 mila persone che vivono di fatto di politica (magari con il solo compito di truccare qualche appalto) sono davvero una follia e un’esagerazione.

Si poteva approfittare della crisi per avviare qualche buon ragionamento e per disegnare qualche buon progetto. Ma non è stato fatto niente. Dopo la crisi, quindi, ci si troverà di nuovo dentro una tempesta: non più quella della crisi, ma quella di un paese bloccato, stretto da tutte le parti, e quindi incapace di muoversi. Un paese non certo liquido, ma di cemento armato.

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