Società

IL PARTITO
DEL GIU’ LE TASSE

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(WSI) – Erano in tanti sabato a sfilare per le vie di Roma contro le tasse. Di Prodi, ma non solo: le proteste fiscali a cavallo fra due legislature non chiamano mai in causa un solo governo. Come Tremonti e Visco si contendono il merito del boom delle entrate, dunque dell’incremento della pressione fiscale, nel 2006, così la rivolta contro le tasse non può che scaturire anche dalle leggi di bilancio della passata legislatura.

Le Finanziarie tra il 2002 e il 2005 ci hanno lasciato in eredità una crescita di due punti, dal 42 al 44 per cento, del rapporto fra spesa pubblica primaria e prodotto interno lordo. Il governo Berlusconi, in quegli anni solidamente al potere, ha obbligato tutti gli italiani, inconsapevolmente, a firmare una cambiale esigibile dal primo governo fiscalmente responsabile.

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A differenza del suo predecessore, chi oggi siede al tavolo di Quintino Sella è abituato a onorare i debiti e, a parte l’operazione Tfr, evita di ricorrere a una tantum creative. Ma la Finanziaria 2007 non si limita a coprire i pagamenti lasciati in sospeso dal governo precedente. Fa lievitare la spesa pubblica e la pressione fiscale ben oltre quanto sarebbe necessario per riportare il disavanzo in linea con gli impegni presi a livello europeo. Questo significa che la spesa rischia ora di assestarsi a livelli più alti in modo permanente, secondo un consolidato meccanismo di tax push per cui le spese si adeguano rapidamente alle maggiori entrate. Sarà ancora più difficile, dopo questa Finanziaria, invertire la rotta.

Sostiene Jean-Claude Juncker, forse il più longevo uomo politico pan-europeo, che «i politici sanno bene cosa devono fare, ma il problema è che non sanno come farsi rieleggere una volta che hanno fatto queste cose». Se si rilegge il primo Documento di Programmazione Economica del governo Prodi e poi si guardano le cifre della Finanziaria viene da dargli ragione.

Il Dpef è consapevole del fatto che l’unico modo per risanare i conti pubblici risiede nell’abbassare il rapporto fra spesa pubblica e pil. Identifica le aree cruciali per interventi di contenimento della spesa. Ma la Finanziaria razzola male, anzi malissimo. Dopo il primo passaggio in Aula, non solo non riduce le spese, ma addirittura le aumenta e non di poco (fino a 6,5 miliardi secondo i calcoli riportati su www.lavoce.info) rispetto a quanto sarebbe accaduto in assenza della manovra e in rapporto al prodotto interno lordo, al netto del ciclo economico. E nuove spese si stanno aggiungendo in questi giorni.

Il tratto di mare fra il sapere cosa occorre fare e il metterlo in pratica è ampio e profondo come nella frase del primo ministro lussemburghese. Dobbiamo perciò rassegnarci ad altri cinque anni con più spesa pubblica e più tasse? Forse no. Ci sono due fatti che ci fanno, timidamente, sperare che Juncker abbia torto. Il primo è che ci sono, in verità, molti politici che «non sanno cosa devono fare». I Dpef della passata legislatura ne sono l’esempio. Applicano la strategia degli annunci. «Vendono» imminenti quanto consistenti sgravi Irpef alle famiglie, tagli all’Irap pagata dalle imprese e annunciano una lunga serie di misure non ancora definite nei loro contenuti e poi spesso inattuate. È una consapevole strategia dell’illusione.

Viene perciò legittimo chiedersi se Berlusconi, quando era alla guida del governo, sapesse davvero «cosa bisognava fare». E dato che dal palco di Roma non si è udita una sola parola di autocritica sulla gestione dei conti pubblici nella passata legislatura, l’interrogativo rimane attuale. Questa è una discontinuità importante rispetto alla legislatura appena iniziata. Non basterebbe a farci sperare in qualcosa di meglio, se non ci fosse anche un secondo motivo per ritenere che il veterano Juncker abbia torto.

Il secondo fatto è la veemente reazione dell’opinione pubblica a una Finanziaria che fa aumentare la spesa e le tasse. In genere le ribellioni avvengono quando si tagliano le spese, soprattutto quando si intaccano gli interessi presidiati dal sindacato. Questa volta il sindacato è stato addirittura favorevole alla manovra, tranne che alla vigilia dell’accordo sul pubblico impiego. C’è stata, invece, la protesta, neanche troppo silenziosa, dell’elettore mediano, di cui è espressione anche la manifestazione di Roma.

Le avvisaglie peraltro si erano già viste nelle ultime settimane di campagna elettorale, dove il centro-sinistra aveva perso quasi interamente il vantaggio nei confronti del centro-destra perché credibilmente descritto come «partito delle tasse».

Come rivelano i sondaggi d’opinione, è aumentata in Italia la percentuale di chi preferisce avere meno tasse e meno trasferimenti piuttosto che uno Stato che chiede di più offrendo di più al contribuente. Tutto questo fa pensare che il clima sia cambiato nel Paese e che il gioco del rinvio ai posteri di decisioni difficili non possa continuare all’infinito.

Se Prodi e il centro-sinistra vogliono continuare a governare, se ambiscono a farlo per almeno due legislature, il tempo minimo per completare le riforme strutturali necessarie a far ripartire il Paese, devono davvero mettersi a fare, e al più presto, le cose che sanno di dover fare. Forse lo hanno capito. Perché la scelta di privatizzare Alitalia, bloccando il drenaggio di denaro pubblico e lasciando al mercato la decisione sulle alleanze, segna un importante cambiamento di rotta. Speriamo che non riguardi solo il volo.

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