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IL P/E? DA SOLO NON BASTA PER ANALIZZARE UN TITOLO

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Per i mercati in questo momento si aggira lo spettro del P/E. Viene usato come criterio per stabilire se un titolo è sovraquotato o no, ma si è dimenticato completamente come nasce e cosa significa.

Prima di entrare nel merito, diciamo perché è venuto particolarmente il suo turno in questo momento. A fine marzo i mercati hanno fatto un minimo e da allora sono già saliti molto o moltissimo. Il Nasdaq ha già messo in cascina un bel +30% o giù di lì. Una parte degli investitori non ci ha creduto, e adesso è fuori; alcuni sono addirittura usciti, disperati per tre anni di ribasso, proprio a marzo.

Costoro adesso si dividono in due categorie: quelli che affermano che devono riportarsi a benchmark, ossia che aspettano ogni minima correzione per entrare, e quelli che persistono nell’errore e dicono che il mercato è già sovraquotato. E’ questa seconda categoria che usa principalmente il P/E per fare questa affermazione.

Back to basics allora: quando compero un’azione faccio un investimento; su questo almeno non c’è dubbio.
Quanto ho investito? Certamente il prezzo che ho pagato.
Come verrò remunerato? In termini fondamentali dal reddito della società; solo in forma mediata tale reddito mi aspetto che trascini il prezzo dell’azione e che quindi io possa realizzare il mio guadagno semplicemente vendendo in borsa; normalmente è così, ma a volte si deve aspettare molto tempo perché questo accada, perché il collegamento non è poi così meccanico come si desidererebbe.

Quindi la remunerazione del mio investimento è, in termini fondamentali, il reddito che la società fornisce agli azionisti – perché io, in termini fondamentali, sono un azionista.
Quanto è questo reddito? Gli utili (earnings). Una parte verranno reinvestiti in azienda e una parte
verranno pagati sotto forma di dividendi, ma il mio reddito sono sicuramente tutti e solo gli utili.

E il rendimento?
Si calcola come tutti i rendimenti: guadagno diviso investimento, ossia utili/prezzo, ossia, se pongo E=earnings e P=price: E/P… l’inverso del P/E. Punto.
Dunque, il P/E o il cosiddetto earnings yield, ossia il rendimento in termini di utili (E/P), convogliano esattamente la stessa informazione: solo che quando il rendimento in termini di utili (E/P) sarà alto avrò un basso P/E e viceversa.

Fissiamo allora l’attenzione sul E/P, sul rendimento. Ovviamente io desidero che sia alto (e quindi che il P/E sia basso), ma quanto alto? Quanto è ragionevole che io chieda sia alto? Una pietra di paragone ce l’abbiamo certamente, ed è il rendimento di mercato delle obbligazioni; per la precisione io chiederò che il rendimento E/P sia almeno uguale al rendimento delle obbligazioni, il che significa oggi, senza stare a fare troppe distinzioni tra scadenze lunghe e brevi, un 3,2% sull’euro e un 2,2% sul dollaro.

Bene: allora se investo su una borsa europea mi farebbe piacere che il P/E dell’azione su cui investo sia più basso di 1/0,032=31 e se investo su una borsa americana che sia più basso di 1/0,022=45.
Sorpresi? Credo di sì. Questi sono P/E che normalmente si giudicano troppo alti. Perché? Perché si ha nelle orecchie un rendimento obbligazionario standard (specie sul dollaro) che è stato a lungo attorno a, diciamo, il 6%, nel qual caso mi avrebbe fatto piacere acquistare una azione con un P/E più basso di 1/0,06=16. Ecco spiegato l’arcano. I P/E che abbiamo nelle orecchie (16 o qualcosa del genere) sono P/E d’altri tempi, non di oggi.

Viene fatta a questo punto un’obiezione: sì, si dice, ma io voglio guadagnare di più del 2,2% (facciamo l’esempio del dollaro) se compero delle azioni, perché mi sto assumendo un rischio impresa che con le obbligazioni non ho (sarebbe meglio dire, di questi tempi: che non dovrei avere). Una indagine che ho fatto e che troverà posto fra le molte altre nella nuova edizione del mio primo “Come Guadagnare in Borsa”, ediz. Il Sole 24 ORE, questo in pratica non è quasi mai successo, ossia il mercato in media si accontenta del rendimento delle obbligazioni (o molto poco di più) anche per il rendimento E/P.

Perché questo? Direi che è semplice: perché se io compero un’azione è vero che corro un rischio impresa, ma è anche vero che gli utili che io uso oggi per calcolare il rendimento E/P sono, appunto, quelli di oggi, ma, se ho fatto una buona scelta, questi aumenteranno nei prossimi anni ad una media del, che so: 20% l’anno, e quindi il tasso reale del mio investimento è molto più alto di quello che otterrei con una obbligazione a cedola sempre più o meno uguale (o uguale tour court) a se stessa.

Ci sono poi altre considerazioni di puro buon senso da fare.

Parlare di P/E medio di mercato, o in modo generico, è qualcosa di enormemente elusivo. Prendiamo una grande azienda sul NYSE come EMC (EMC – Nyse): ha passato la crisi economica aumentando vendite e utili e adesso ha un bilancio praticamente in pareggio, ma non ha debiti ed ha una liquidità per azione pari a circa il 15% del prezzo dell’azione stessa… senza andare avanti dico già che il P/E in questo caso non mi dice nulla sulla scommessa che posso o non posso fare sul futuro di EMC.

Gillette (G – Nyse) ha un P/E di 28; dice: è troppo alto; peccato che ce l’abbia sempre avuto così; quasi nessuno, salvo che in epoca ormai remota, è mai riuscito a comperare un grande titolo come Gillette a un P/E di molto più basso. E poi, cercando, non è che sia così difficile trovare titoli come Best Buy (BBY – Nyse)c he hanno aumentato sempre vendite e utili in periodi neri, e che hanno un P/E di 21, contro un ROE del 24% e un tasso di crescita degli utili del 20% all’anno negli ultimi (pessimi) tre anni… cosa c’è di sbagliato in Best Buy? Credo niente in particolare. Di sbagliato c’è solo la riduzione di un mondo complicato a ricette troppo semplici per essere vere: il P/E sopra a tot non è buono. E chi l’ha detto? Magari fosse così facile fare analisi fondamentale!