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IL GIOCO DEL CERINO

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Al momento di stringere sulla riforma del sistema previdenziale, la Lega – com’era forse prevedibile – ha richiuso le finestre della sua sussurrata disponibilità, lasciando peraltro uno spiraglio per la trattativa fra Bossi e Tremonti che continuerà sotto traccia.

Ed era forse da mettere in conto anche che l’Udc, il partito della maggioranza che ha chiesto con più determinazione la riforma della previdenza con interventi solenni di Casini e Follini, al momento di passare dalle parole ai fatti spiegasse con D’Antoni che la riforma è sì da fare, ma solo se c’è il consenso delle parti sociali. E siccome i sindacati sono contrari…

Stesso discorso per An: Fini ha inaugurato il nuovo ruolo di «regista» delle scelte in campo socio-economico dando la sua disponibilità alla riforma. Ma la destra sociale è in fermento e il vicepremier non vuole rischiare di ritrovarsi incastrato in una posizione impopolare.

Il gioco del cerino è un classico della politica, ma in nessun campo ha raggiunto la raffinatezza e la perfezione che caratterizzano da dieci anni le discussioni sulle pensioni. Tutti sanno che l’intervento è necessario, ma anche che la grande maggioranza dell’opinione pubblica è contraria. Berlusconi, che già si è bruciato le dita (e non solo quelle, a dire il vero) nel ’94, ha rifiutato di inserire la riforma previdenziale nel programma della Casa delle Libertà ed ha sempre accantonato il problema nei primi due anni della legislatura.

Oggi è orientato a procedere perché Tremonti l’ha convinto che solo la riforma delle pensioni è in grado di offrirgli due risultati essenziali: un certificato di credibilità per la nostra politica economica in Europa (probabilmente necessario anche per far passare altre «una tantum» alquanto indigeste come il condono edilizio) e una essenziale fonte di risorsa capace di alimentare i capitoli di spesa maggiormente in sofferenza e di finanziare la riduzione delle tasse prevista dalla riforma fiscale.

La sinistra riformista che sfida da tempo il governo ad avviare le riforme strutturali, salvo scoprire che quella previdenziale le risulta indigesta, fa un gioco politico comprensibile quanto quello delle varie componenti della maggioranza: non vuole togliere le castagne dal fuoco al governo né benedire misure oggi impopolari ma dalle quali Berlusconi potrebbe ricavare le più preziose munizioni – quelle fiscali – per la campagna elettorale del 2006. Così com’è comprensibile il no di una Cgil nella quale Epifani ha già compiuto strappi notevoli rispetto alla gestione precedente e quello della Cisl che, dopo aver rotto con Cofferati e firmato il patto per l’Italia, ha vissuto un anno difficile.

È possibile che lo stop della Lega di ieri, comprese le telefonate di Berlusconi alle quali Bossi ha scelto di non rispondere, faccia parte di un rituale: si alza il prezzo dell’accordo e si cerca di limitare l’impatto sulle pensioni di anzianità, quelle più care all’elettorato padano. Così come è possibile che l’opposizione, che in fondo ha anch’essa una convenienza a che la riforma si faccia comunque, si prepari a contestare senza troppa asprezza le decisioni che verranno prese dal governo. Ma l’esperienza del ’94 e poi il tentativo andato in fumo del governo Prodi stanno lì a dimostrare che le ragnatele dei tatticismi sono in grado di affondare qualunque progetto, anche al di là delle volontà dei singoli soggetti politici.

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