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IL DOW PIGLIATUTTO SOGNA QUOTA 14.000

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(WSI) –
Sono bastati sei mesi per passare dal record dei 12.000 punti a quello dei 13.000 del Dow Jones industriali average (DJIA), l’indice azionario americano più famoso e storico, rappresentativo di 30 blue chip. Quanti ce ne vorranno per arrivare a 14.000? Oppure prima bisognerà tornare giù con uno scivolone a 12.000?

Crede a questa ipotesi pessimista ben il 46% dei lettori del Wall Street Journal che hanno partecipato a un sondaggio online, mentre il 54% punta al nuovo massimo, pur senza dire quando sarà toccato. Questa divisione mostra che l’umore degli investitori è tutt’altro che euforico. Motivo di più per pensare che l’attuale rialzo può continuare e arrivare almeno a quota 13.750 entro fine anno, secondo Jason Trennert, fondatore della società di analisi finanziaria Strategas Research: uno dei pochi che l’anno scorso aveva previsto il rally dell’ultimo trimestre, mentre molti altri si aspettavano un crac stile ottobre ’87.

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«Sono ottimista, perché le valutazioni sono ancora attraenti – spiega Trennert -. È il mercato che sta adeguandosi al buon andamento dei profitti e che sta rendendosi conto di quanto le quotazioni siano basse: non siamo insomma in una fase di speculazione. E infatti sono aperte più scommesse sul ribasso che non sul rialzo del New York stock exchange e del Nasdaq, mentre finora i risparmiatori sono rimasti alla finestra, snobbando i fondi comuni azionari Usa a favore degli azionari internazionali».

Chi è sorpreso all’attuale forza dei profitti delle società quotate a Wall Street non ha capito la maggior novità dello scenario economico e finanziario, che secondo Trennert è la globalizzazione, «ha aiutato le imprese americane a tenere sotto controllo i costi, in particolare quello del lavoro. Con la disoccupazione al 4,4%, in passato il costo del lavoro sarebbe aumentato sensibilmente, invece è rimasto basso, il che spiega i notevoli margini di profitto aziendali».

Salari statici, con l’inflazione aumentata, significano però meno potere reale d’acquisto e quindi una certa debolezza dei consumatori americani, che erano stati finora un traino di Wall Street. Al loro posto secondo Trennert ora sono i consumatori globali. «Circa il 40% dei profitti delle aziende dell’indice S&P500 viene dall’estero – sottolinea -. Molte multinazionali americane oggi offrono un’opportunità più conveniente e più sicura di giocare la carta dei Paesi emergenti, migliore che investire direttamente su quei mercati. Buoni esempi sono Cisco, Procter&Gamble, Hewlett-Packard e PepsiCo».

Più cauto è Glen Baptist , chief investment officer degli International investments per Prudential Financial : «Crediamo che le Borse continueranno a salire e quest’anno otterranno performance simili al 2006. Ma nel breve periodo ci aspettiamo ancora molta volatilità, con saliscendi dei listini, perché il rally partito dopo la correzione di febbraio, quando il crollo del mercato di Shangai aveva spaventato gli investitori di tutto il mondo, è stato molto forte e veloce. Agli attuali livelli raccomandiamo i nostri clienti di non sovrappesare troppo le azioni, ma di restare vicino al proprio benchmark e soprattutto essere molto diversificati».

Fra le Borse mondiali, lo stratega di Prudential preferisce le europee e poi quelle dei Paesi emergenti. «Ma fra queste ultime crediamo siano meglio quelle dell’Est Europa rispetto alla Cina, piuttosto cara e volatile – continua Baptist -. Sul Giappone siamo positivi ma neutrali. Mentre suggeriamo di sottopesare Wall Street, perché la crescita dei profitti delle società è inferiore al trend storico, così come quella economica. Non crediamo però che si verificherà una recessione e nemmeno un calo di Wall Street causato da un collasso dei profitti, perché molte aziende Usa beneficiano della crescita della domanda globale e del dollaro debole, fattori che insieme spingono le esportazioni americane».

Decisamente più pessimista è Thomas McManus, responsabile delle strategie di investimento di Bank of America Securities. «La correzione iniziata lo scorso 27 febbraio non è completamente finita – sostiene McManus -. È vero che gli utili del primo trimestre finora sono stati migliori delle aspettative, che però erano molto basse. Ma continuano a rallentare, soprattutto nei settori finanziario, dell’energia e dei consumi discrezionali, per non parlare di quelli dei costruttori di case».

McManus ha corretto all’insù i suoi target, ma avverte: «Le aziende che per prime annunciano i risultati trimestrali sono in genere le più grandi, quelle con maggior esposizione internazionale. A maggio conosceremo gli utili delle aziende più domestiche e credo che allora il tono della Borsa sarà più moderato, perché i loro utili saranno danneggiati dal raffreddamento dell’economia americana, colpita dalla crisi del mercato immobiliare e dei mutui».

Secondo McManus bisognerà stare attenti in particolare al settore finanziario: «Non si è ancora ripreso dai ribassi di Borsa di febbraio. L’andamento dei suoi profitti è importante, perché è un indicatore della salute di tutta l’economia. Se, a causa dei cattivi crediti, calano il fatturato e gli utili di questo settore, significa che sarà disponibile meno credito per tutti i consumatori e le aziende». McManus raccomanda quindi di sottopesare i titoli delle banche e di tutte le società legate ai consumi discrezionali, cercando rifugio nei difensivi come i beni di largo consumo e della salute.

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