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IL CRACK DEL NASDAQ? «NON C’E’»

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(WSI) – Un giorno John Kenneth Galbraith entrò nella libreria degli imbarchi al La Guardia di New York e chiese notizie del «Grande Crash», il suo libro sul crac del ’29. «Non è il tipo di titolo che venderesti in un aeroporto», fu la risposta.

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Una simile toccherebbe probabilmente oggi ai verbali, appena resi noti, dei vertici della Federal Reserve guidati nel 2000 da Alan Greenspan. Dopo cinque anni le parole del banchiere trasmettono la stessa vertigine che danno i protagonisti del ’29, euforici sull’orlo di una catastrofe Borsa che non videro arrivare. A credere ai verbali del «Comitato federale di mercato aperto» (Fomc), l’organo dirigente della Fed, Greenspan non aveva capito che l’America stava vivendo il maggiore crollo di Borsa dai tempi di Calvin Coolidge. Questi, da presidente, alla vigilia della grande depressione annunciò «un’èra di ottimismo senza limiti».

Almeno 71 anni più tardi il capo della Fed nel 2000 dimostra di avere il senso pratico dalla sua. Il 16 maggio per esempio conduce una riunione del Fomc in un clima frizzante, punteggiato da risate messe a verbale. Fuori però la situazione era delicata. Due mesi prima il Nasdaq, il listino newyorkese delle imprese tecnologiche, ha toccato a quota 5.060 punti il massimo di quella che Greenspan stesso ha definito da tempo «un’esuberanza irrazionale». La sensazione di ricchezza trasmessa alle famiglie dalle azioni dal valore gonfiato sostengono i consumi, aumentano i posti di lavoro, surriscaldano i prezzi.

La Fed è preoccupata, in primavera l’inflazione è al 3,7% e si temono alti aumenti. Eppure, a ben vedere, quando il Fomc si riunisce l’ingranaggio si è già inceppato: fra crolli e tentate riprese, il Nasdaq è sceso in due mesi del 30%, il Dow Jones delle grandi icone industriali americane l’ha seguito. È l’avvio di un terremoto che ridurrà il listino tecnologico a un quarto del suo valore, ma Greenspan non pare preoccupato. Anzi, dopo aver lasciato parlare tutti, spazza via le cautele espresse dal suo staff sulla frenata della produttività con una chiarezza di termini che in pubblico non gli si conosce: «Prendo atto delle stime – debutta – ma non ci credo per una frazione di secondo. Non c’è neanche una remota possibilità che siano accurate».

Lo erano: a inizio 2000 la produttività americana non andava verso quel balzo del 6% previsto dal grande banchiere centrale, cresceva a ritmi dimezzati rispetto al ’99. Il motore tecnologico americano si era inceppato. Ma Greenspan ormai sembra nella trappola tipica delle nuove tecnologie: si sopravvaluta il loro impatto nell’immediato, lo si sottovaluta a lungo andare. E lui nel maggio del 2000 vive nell’immediato: «Gli effetti di rete sui sistemi hi-tech stanno creando una grande accelerazione di base nell’economia», dice.

Nella sua euforia non cita i crolli a Wall Street, non parla neanche delle Borse, ma argomenta il suo ottimismo dilungandosi su raffinati dettagli: un terremoto a Taiwan limita la fornitura di semiconduttori a Cisco e Intel, l’impatto dell’effetto-serra sul consumo di gasolio fa sì che le stime di crescita escano forse un po’ sotto la realtà. Così il banchiere raccomanda di alzare i tassi principali, i Fed funds, addirittura di 0,50% al 6,5% e di avvertire che la banca è pronta a nuove strette anche in giugno.

Non le farà. Quando il Fomc si riunisce un mese dopo è ormai chiaro che lo scoppio della bolla a Wall Street sta frenando l’America. In luglio inizierà il primo trimestre di contrazione dell’economia da dieci anni, a fine anno il Nasdaq avrà polverizzato metà del suo valore, la disoccupazione torna a salire. Eppure il grande timoniere della Fed quel giorno di maggio era stato avvertito dai suoi. Il suo vice William McDonough aveva parlato di «euforia nel pubblico che può essere soggetta a cambiamenti rapidi e improvvisi»; esiste, aveva aggiunto, il rischio di «esagerare nella stretta». William Poole della Fed di St. Louis si era spinto anche più in là: «Il mercato è scosso, se cede creerà un sacco di problemi. Voglio dire, non solo politici: anche a noi».

Ma dopo cinque anni di record nei listini e nella produttività, il presidente è troppo sicuro per dar loro ascolto. Forse preso dall’istinto di dare più peso a ciò che può controllare meglio, preferisce un’attenta disanima del credito alle imprese a un’analisi dei mercati. Per poi infilare solo alla fine una nota di umiltà: nel ’94 facemmo le scelte giuste, ricorda, «ma ciò non significa che ci riusciremo sempre: può essere stata fortuna. E se lo fu – nota – la prossima volta potremmo anche perdere».

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