Società

IL 24 OTTOBRE DELLA GRANDE DEPRESSIONE

Questa notizia è stata scritta più di un anno fa old news

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.

(WSI) – «Non mi risulta ci sia nulla di negativo nei fondamentali
del mercato azionario, delle imprese e della struttura
creditizia a esso relativa». Così parlò Charles E. Mitchell,
presidente della National City Bank, martedì 22
ottobre 1929. Il giovedì successivo sul New York
Stock Exchange vennero scambiate 12,9 milioni di
azioni.

L’ondata di panico tra gli investitori non si fermò
e il Dow Jones inaugurò la settimana successiva
con un calo del 12,82 per cento. Il giorno dopo, 24 ottobre
1929, l’indice perse un altro 11,73. Era il «martedì
nero» di Wall Street, devastante esplosione di una bolla
speculativa che ha trovato paragoni solo in questi
mesi, con il terremoto che ha sconvolto i listini internazionali
in seguito alla crisi dei mutui americani.

Il crac che diede il via alla Grande Depressione (se ne
sia stato la causa o il sintomo è un argomento ancora
al centro di un acceso dibattito tra gli economisti) giunse
al termine di un
boom speculativo senza
precedenti che vide
i prezzi delle azioni
crescere apparentemente
senza freni per
tutta la seconda metà
dei «ruggenti Anni
20». Incoraggiati dal
trend rialzista e attratti
dal miraggio di facili
guadagni, migliaia di
comuni cittadini iniziarono
a investire in borsa,
arrivando persino
a indebitarsi per poter
acquistare nuove azioni.

Nell’agosto del
1929 il valore complessivo
di prestiti emutui era arrivato a 8,5 miliardi di
dollari, una cifra che superava l’ammontare della moneta
in circolazione negli Stati Uniti all’epoca.
E per chi non aveva molta liquidità a disposizione,
c’erano sempre i «derivati», che consentivano un investimento
limitato al momento dell’acquisto con prospettive
di redditività allettanti. I tassi di interesse arrivavano
al 12%, e, con il Dow Jones che dal 1924 al
1929 aveva quintuplicato il suo valore, nessuno riusciva
a immaginare di poterci perdere. «Persino il lustrascarpe
o il ragazzo dell’ascensore elargivano consigli
sulle quotazioni delle azioni Ford e General Motors –
ricorda Paul A. Samuelson, Nobel per l’economia nel
1970 -. Si trattava di capitalismo allo stato puro, che
praticamente agiva senza regole governative».

Intanto, il ritorno della Gran Bretagna al gold standard
faceva sbarcare nuovi capitali sui lidi di Manhattan.
Ma la sopravvalutazione delle azioni e la bolla creditizia
avevano ormai toccato livelli insostenibili. Nel
mese precedente il «giovedì nero» del 24 ottobre, data
d’inizio della crisi, i mercati avevano già dato forti segnali
di instabilità. All’inizio di settembre del 1929 la
media del rapporto tra prezzi e utili delle azioni di S&P
Composite aveva raggiunto quota 32,6. Nel mese successivo
il valore dei titoli calò del 17%, per poi recuperare
metà delle perdite e calare di nuovo.

La spirale ribassista non si fermò, e il 24 ottobre si
scatenò il panico tra gli investitori. In una sola seduta
vennero vendute 12,9 milioni di azioni. Il giorno successivo
alcuni tra i più grandi banchieri d’America si riunirono
per cercare di trovare una soluzione alla crisi, un po’
com’è avvenuto nei giorni scorsi tra Washington e New
York.


Col capitale messo a disposizione dai colossi della
finanza di allora, come il numero uno della Chase National
Bank, Albert Wiggin, e il presidente della Morgan
Bank Thomas W. Lamont, il vicepresidente della Borsa,
Richard Witney comprò titoli di alcune tra le principali
blue chip a un prezzo che ne sopravvalutava nettamente
il valore. Ma la mossa non riuscì, come sperato, a spingere
gli investitori ad acquistare di nuovo, ed ebbe come
unico effetto una chiusura di sessione piatta. Ma il peggio
doveva ancora arrivare. Lunedì 28 ottobre l’ondata
di vendite continua, e il Dow Jones perde il 12,82 per
cento.

Il giorno successivo
è il caos. Il principale
indice della borsa
della Grande Mela
lascia sul terreno altri
11,73 punti percentuali.
Solo in quella
sessione vengono bruciati
14 miliardi di dollari.
È il «martedì nero
». Il crollo si arresterà
solo l’8 luglio del
1932, con il Dow Jones
che chiude a quota
41,22 punti. Il 3 settembre
1929 era a
381,17 punti, il record
di allora. In meno
di due anni l’indice
aveva perso l’89% e dovette attendere fino al 1954 per
recuperare le perdite. Nelle parole dell’economista Richard
M. Salsman «chi comprò azioni nella metà del
1929 e le tenne vide passare la maggior parte della vita
da adulto prima di ritornare in pareggio».

Il panico si diffuse
presto a tutte le piazze statunitensi ed estere. Si
parla di numerosi suicidi di squali della finanza che in
poche ore avevano visto svanire nel nulla tutte le loro
ricchezze, un fenomeno successivamente ridimensionato
da John Kenneth Galbraith in quello che è forse il libro
più famoso sull’argomento: The Great Crash, 1929.
I mercati finanziari di tutto il mondo vararono misure
per sospendere i titoli che registravano ribassi eccessivi.
Nel 1933 il Glass-Steagall Act introdusse la distinzione
tra banche commerciali e banche d’affari, quegli istituti
che, oltre a gestire depositi e fornire prestiti, si occupano
del mercato dei titoli.


Nel frattempo lo Smooth-
Hawley Tariff Act del 1930 aveva bruscamente aumentato
i dazi doganali sulle importazioni, spingendo i
partner commerciali dell’America a reazioni dello stesso
segno e alimentando la sfiducia dei mercati e, con
essa, le tendenze al ribasso. Era iniziata la Grande Depressione,
le cui conseguenze inizieranno ad avvertirsi
presto anche oltreoceano. E che, come uno scenario da
incubo, rischiano di ripetersi oggi: siglando come un incubo
la fine dell’era di George W. Bush.

Copyright © Finanza&Mercati. Riproduzione vietata. All rights reserved

parla di questo articolo nel Forum di WSI