Società

I PADRONI
DEL PETROLIO

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L’attuale politica americana in Iraq ripropone una delle questioni fondamentali del capitalismo: chi possiede cosa? Sarebbe a dire, chi ha il diritto di vendere il petrolio iracheno? E chi quello di decidere quali delle grandi compagnie petrolifere del mondo può investire nello sviluppo dei giacimenti iracheni e da essi trarre profitto?

Miliardi di dollari se ne stanno in sospeso. Proprio come il futuro dell’Iraq e le somme che serviranno per ricostruire il Paese. Nel sottosuolo dell’Iraq si trova la seconda più grande riserva di petrolio del mondo. E questo materiale rappresenta la prima e la più grossa opportunità da decenni a questa parte per le compagnie petrolifere che intendano guadagnare milioni e milioni dalla sua estrazione.

Prima dell’attacco americano l’Iraq vendeva circa due milioni di barili al giorno. Questa vendita avveniva sotto l’autorità delle Nazioni Unite. Dopo la prima guerra del Golfo l’Onu aveva proibito all’Iraq di vendere petrolio, in conseguenza delle sanzioni imposte per indurre Saddam ad abbandonare il potere. Ma poi, nel 1995, l’Onu aveva deciso di permettere la vendita del petrolio al fine di procurare cibo e assistenza al popolo iracheno.

Il programma «Oil-for-food» è ancora teoricamente sotto il controllo delle Nazioni Unite. Ma il personale che amministrava il programma per conto dell’Onu ha lasciato l’Iraq due giorni prima che iniziassero i combattimenti, e nessuno li ha ancora richiamati. Per quel che riguarda i potenziali acquirenti del petrolio iracheno bisogna dire che, almeno per il momento, nessuno che abbia una mente sana vuole comprare il greggio proveniente da questo paese perché senza interlocutori affidabili, i compratori rischierebbero di gettare i loro soldi in un pozzo… nel deserto.

La questione più urgente sembra essere quella della modernizzazione dei campi petroliferi iracheni e dei nuovi trivellamenti. È molto probabile che non saranno le Nazioni Unite a svolgere questi compiti, e nemmeno gli Stati Uniti. Questo lavoro dovrà essere affidato alle grandi compagnie private. Ma l’unica maniera di convincerle a compiere i necessari investimenti è assicurar loro, dal punto di vista legale, la possibilità di sfruttare il petrolio estratto per almeno dieci anni, il periodo minimo necessario a recuperare i mezzi investiti in imprese simili.

Ed ecco che viene a galla il nocciolo della questione. Francia e Russia non vogliono lasciare l’amministrazione dell’industria petrolifera nelle mani degli americani. Ciò significherebbe negare alle loro stesse compagnie petrolifere la possibilità di investire e fare profitti nell’area. La più grande compagnia francese già dichiara di aver stipulato contratti d’affari su due campi petroliferi con il regime di Saddam. La Russia afferma che la sua gigantesca compagnia petrolifera ne ha conclusi innumerevoli su molti altri. E poi ci sono la Exxon, la British Petroleum e la Royal Dutch/Shell che reclamano per sé una parte nel gioco.

George W. Bush dice che il petrolio iracheno appartiene al popolo iracheno. E in questo ha ragione. Ma la sua affermazione evade la questione principale, cioè chi farà gli investimenti necessari per tirar fuori il petrolio dal sottosuolo e chi ne riceverà i benefici finanziari, prima di affidare i guadagni futuri all’Iraq stesso. Se gli Usa dicessero all’Onu di farsi da parte e dessero le concessioni, diciamo, alla Exxon, ciò confermerebbe in pieno le peggiori supposizioni degli iracheni e di molti altri nel mondo sui motivi primari del nostro intervento in Iraq.

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*Robert Reich è stato segretario del Lavoro degli Stati Uniti durante l’amministrazione Clinton; oggi è professore di politica sociale ed economica alla Brandeis University

Traduzione di Gabriele Dini

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