Società

I falliti e i perduti: generazioni contro. Ai giovani il conto della gerontocrazia

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“Un’intera generazione sta pagando un conto salatissimo”. Parole sante quelle pronunciate dal premier Mario Monti all’apertura del Meeting di Rimini il 19 agosto scorso. Quello che il professore non ha detto, però, è che davanti alla cosiddetta generazione perduta ce ne sono almeno un paio che il conto, invece, lo hanno incassato durante i decenni trascorsi ai vertici del sistema-Italia, dalla politica, ai sindacati e alle associazioni, passando per la ragnatela del pubblico e del para-pubblico. Con i risultati che sono oggi sotto gli occhi di tutti. Tanto che se è vero che c’è una generazione perduta, è altrettanto vero che questa esiste perché è stata preceduta da generazioni che, con i dovuti distinguo, potremmo ribattezzare fallite. Alle quali ilfattoquotidiano.it ha deciso di dedicare un’inchiesta a puntate. Generazioni fallite, come quelle degli anni trenta e quaranta che hanno dato vita all’ingombrante popolo dei manager e dei dirigenti di Stato sostenuti da una politica per la quale il motto largo ai giovani non sembra esistere, come dimostrano anche gli estremi anagrafici dei nostri politici (57 anni l’età media dei senatori, 54 quella dei deputati) e dell’attuale governo (età media 64 anni, 69 anni il premier). E molto spesso poco importa che le gestioni abbiano o meno portato dei risultati: per il cattivo funzionamento di imprese ed enti pubblici non paga quasi mai nessuno. Cittadini esclusi naturalmente. Così gli operati raramente vengono messi in discussione. E se per caso qualcuno si accorge che i conti tra le performance e i lauti stipendi non tornano, basta un giro di poltrone per calmare le acque. Quanto all’età, in Italia, nel pubblico come nel privato, tetti per legge non ce ne sono. Da qui una casistica decisamente varia che spazia dalle società pubbliche, alle autorità di vigilanza, agli enti e le fondazioni di emanazione statale, senza trascurare sindacati, associazioni di categoria e ordini professionali.

VIAGGI DI STATO: DA TRENITALIA AD ALITALIA. Se le autorithy di vigilanza vantano i primati nella reiterazione dei mandati, spetta alle aziende di Stato la palma res per retribuzioni e superbonus. Alle Ferrovie, Giancarlo Cimoli, classe 1939, piazzato dal governo Prodi nel 1996 a risanare il gruppo dopo l’era di tangentopoli e di Lorenzo Necci, va via nel 2004 intascando un assegno di addio da 6,7 milioni di euro e lasciando i conti in rosso per 125 milioni. Un buco che per il governo Berlusconi vale la poltrona della claudicante Alitalia dove, pur arrivando decisamente lontano dagli obiettivi di risanamento, Cimoli incassa un’altra buonuscita. Da 3 milioni. Peggio di lui, in termini di risultato di gestione, fa il suo successore alle Ferrovie, il 66enne Elio Catania, che nel 2005 chiude il bilancio delle Fs in negativo per 465 milioni. Si dimette l’anno successivo quando il rosso ha ormai raggiunto e superato quota 2 miliardi su richiesta del Ministro dell’Economia Tommaso Padoa Schioppa. Ma anche lui, come Cimoli, intasca una buonuscita (7 milioni) inversamente proporzionale ai risultati ottenuti e pochi mesi dopo viene scelto da Letizia Moratti per la presidenza dell’azienda municipalizzata dei trasporti milanesi, Atm, incarico che è stato revocato l’estate scorsa dal sindaco Giuliano Pisapia. Lo stesso che ha appena rispolverato il settantaduenne Giovanni Maria Flick che, già ministro della Giustizia e, in seguito, presidente della Corte Costituzionale, chiusa la vicenda San Raffaele e sfumato il vertice dell’Istituto Toniolo di Milano, l’ente che controlla l’università Cattolica, è stato indicato come delegato del sindaco, a titolo gratuito, va detto, al Tavolo di coordinamento per l’Expo 2015, l’evento per il quale si lavora freneticamente con un’enorme quantità di appalti e contrappalti. Gesuita di formazione, il professor Flick saprà certo far miracoli per esaudire al meglio le funzioni di vigilanza, controllo e impulso in relazione.

LA BENEDIZIONE DELLA CHIESA. Del resto quando la Chiesa da la sua benedizione anche i sindacalisti si laureano honoris causa, come il presidente delle Poste, Giovanni Ialongo, classe 1944, nominato nel 2008 e ancora in carica. Una vita spesa a servizio dell’Istituto postelegrafonico: da segretario nazionale Federazione Posta Cisl fino a presidente e commissario straordinario dell’Ipost, presidente Postel. Un curriculum “pubblico” di tutto rispetto che nel 2009 gli vale la laurea honoris causa in diritto Civile rilasciata da monsignor Rino Fisichella, rettore della Pontificia Università Lateranense, per l’attenzione sempre prestata al messaggio della Dottrina sociale della Chiesa e a una visione dell’economia incentrata sul rispetto della persona.

SCARONI-GUARGUAGLINI: GLI EVERGREEN. Sa di miracolo, poi, la storia di Paolo Scaroni, il cui arresto nel 1992 per tangenti al partito socialista per conto della Techint (poi finito con un patteggiamento a un anno e quattro mesi), non ha inficiato la brillante carriera in Enel (ad dal 2002 al 2005) e poi Eni (dal 2005) della quale è ancora amministratore delegato alla tenera età di sessantacinque anni. E pensare che l’ex deus ex machina di Finmeccanica, Pier Francesco Guarguaglini, classe 1937, a dicembre è uscito di scena prima che l’inchiesta sul sistema di corruzione degli appalti Enav arrivasse a processo. Va detto però che era nell’aria da tempo il ricambio per un manager che, assieme alla moglie Marina Grossi, ex ad della Selex finita sotto inchiesta ben prima del marito, ha guidato l’azienda di Stato della Difesa per ben nove anni (dal 2002). Sono pochi del resto gli uomini di potere che optano per la pensione. Per esempio Franco Bassanini, classe 1940, è saldamente ancorato alla poltrona della presidenza della Cassa Depositi e Prestiti dal 2008. Tenace anche Giovanni Castellaneta, 70 anni tra pochi giorni e già consigliere della stessa Finmeccanica per conto del Tesoro durante l’ultimo triennio Guarguaglini, che dopo aver trascorso una vita da ambasciatore, è stato ricollocato nel 2009 alla presidenza di Sace, l’agenzia pubblica di credito all’esportazione.

AMBASCIATOR NON PORTA PENA. A un altro ex diplomatico eccellente, invece, è andata la presidenza della Arcus. La società pubblica per lo sviluppo dell’arte, della cultura e dello spettacolo fa in fatti capo a Ludovico Ortona, classe 1942. L’ex ambasciatore italiano a Lisbona, Teheran e Parigi, ma soprattutto capo ufficio stampa alla presidenza della Repubblica di Francesco Cossiga, è stato infatti scelto per questo delicato ruolo da Sandro Bondi a luglio del 2010. Giusto in tempo per fare i conti con il crollo della Scuola dei Gladiatori a Pompei, avvenuto quattro mesi dopo.

I 19 GOVERNI DI MR TIRRENIA. Pochi, però, hanno saputo eguagliare le gesta del cavaliere del Lavoro e gentiluomo del Papa (Wojtyla) Franco Pecorini, classe 1941. Ovvero l’uomo solo al comando che nel 2010 ha traghettato la disgraziata Tirrenia alla certificazione del naufragio, dopo aver guidato indisturbato per ben ventisei anni la compagnia di navigazione recentemente oggetto di uno spezzatino chirurgico e di una faticosissima privatizzazione. Soltanto alla vigilia dei 70 anni lui,m che al contrario della “sua” azienda è sopravvissuto incolume a 19 governi, è passato al cda dell’assicuratore di Tirrenia, Ital Brokers e ha ceduto il timone della compagnia di navigazione al Commissario straordinario, Giancarlo D’Andrea. Anche lui, manco a dirlo, grande vecchio della pubblica amministrazione.

GESTIONI INATTERRABILI. Del resto i manager pubblici nati negli anni 40, in Italia affollano i posti chiave di enti e aziende di Stato. Come l’Enac, l’ente cui è affidato il controllo dell’aviazione civile, dal 2003 presieduto dal palermitano Vito Riggio, 65 anni, ex parlamentare Dc ed ex consigliere di Pietro Lunardi, nonché inquilino eccellente di Propaganda Fide, che casca letteralmente dal pero quando compagnie come la sua conterranea Windjet colano a picco da un giorno all’altro. O come il suo coetaneo Giorgio Tino, parente di Antonio Maccanico e nipote del primo presidente di Mediobanca, che dopo una carriera ministeriale con una particolare predisposizione per l’ambito tributario, è stato seduto sullo scranno della direzione generale dei Monopoli di Stato dal 2002 al 2009 – gestione dalla quale ha recentemente ereditato una multa di 4,8 milioni di euro inflittagli dalla Corte dei Conti – per poi passare alla vicepresidenza di Equitalia Gerit dopo la cui chiusura, nel 2011, lo troviamo nel consiglio di amministrazione della fondazione Centro sperimentale di cinematografia. Che per statuto viene nominato con Decreto del Ministro per i Beni e per le Attività Culturali, sentito il parere delle competenti commissioni parlamentari ed è composto da personalità “di elevato profilo culturale, con particolare riguardo al campo cinematografico ed audiovisivo e con comprovate capacità organizzative”.

LA RESISTENZA DEL COMMERCIALISTA DI BOSSI. Resistere, poi, è il motto del settantacinquenne calabrese Dario Fruscio, che dopo un lungo rodaggio come disturbatore d’assemblee e consigliere di amministrazione della Standa, grazie al rapporto di fiducia con Umberto Bossi nel 2002 si è piazzato per sei anni nel cda dell’Eni, per cinque in quello di Sviluppo Italia, la discussa agenzia per l’attrazione degli investimenti nel Paese che oggi si chiama Invitalia e nel 2008 ha trovato il tempo anche per una comparsata alla guida del collegio sindacale di Expo 2015. E se è stato difficilissimo schiodarlo dalle poltrone pubbliche durante il suo mandato al Senato tra il 2006 e il 2011, sembra praticamente impossibile allontanarlo dalla guida dell’Agea, l’agenzia che gestisce gli oltre 7 miliardi annui di erogazioni per l’agricoltura dalla quale era stato defenestrato con il commissariamento in seguito ad un conflitto sul pagamento delle quote latte. Salvo poi ottenere il reintegro al Tar a gennaio di quest’anno.

I FIGLI SO’ PEZZI ‘E CORE: CARDIA E GIANNINI. Tempra simile a Fruscio, mutatis mutandis, per Lamberto Cardia, 12 anni alla vigilanza dei mercati finanziari, la Consob, tra una proroga e un cambio di normativa e l’altro negli anni di Cirio, Parmalat e dei furbetti del quartierino, con una gestione improntata alla chiusura della stalla a buoi scappati. E con un figlio, Marco, che ha fatto parlare di sé per aver prestato i suoi servizi di avvocatura alla famiglia Ligresti. E quando ha lasciato lo scranno nel 2010, alla tenera età di 76 anni, qualcuno non dev’essersela sentita di mandarlo ai giardinetti. Ed ecco per lui una nuova poltrona: la presidenza delle Ferrovie dello Stato al posto dell’allora sessantanovenne Innocenzo Cipolletta, dove lo troviamo ancora oggi. Figli scomodi anche per Giancarlo Giannini, classe 1939 dal 2002 presidente della vigilanza delle assicurazioni, l’Isvap, dopo un trentennio all’Assitalia e un passaggio all’Ina e il cui figlio Andrea tra il 2005 e il 2006 è stato ispettore commerciale con il grado di funzionario nella FondiariaSai dei soliti Ligresti, il cui sfacelo è oggi sotto gli occhi di tutti. E non certo per l’attivismo della vigilanza, che sarà a breve traghettata sotto la Banca d’Italia. Niente Fs per Giannini, peraltro scaduto da qualche settimana, che per il momento si accontenta del ruolo di commissario con stipendio ridotto del 10% con il compito di gestire la transizione.

L’UOMO DEL PONTE. Intanto i senatori insorgono contro Pietro Ciucci, il 62enne che dal 2006 guida l’Anas, la società che gestisce la rete stradale italiana. Ma anche la Stretto di Messina, al cui comando è stato messo dieci anni fa, subito dopo la liquidazione dell’Iri dove aveva trascorso ben 15 anni. Ebbene i parlamentari indignati sostengono che qui Ciucci si sarebbe preso libertà che vanno molto al di là del suo mandato, con la volontà di favorire di fatto e in tutti i modi possibili le imprese che avrebbero dovuto costruire il Ponte. Come Condotte, la Cooperativa muratori e cementisti-Cmc di Ravenna, ma soprattutto l’Impregilo già dei Benetton (Autostrade) e dei Ligresti, ora contesa tra Pietro Salini e l’importante concessionario autostradale del Paese, Gavio. Anche a danno delle finanze pubbliche, sempre secondo i senatori.

LA QUOTA ROSA. Non sarà sfuggito che fin qui, consorti a parte, la lista dei longevi manager pubblici è tutta al maschile. Ma c’è una donna che è riuscita a farsi spazio in questo aggressivo mondo di uomini: la 67enne Anna Maria Tarantola, dal 1971 ad oggi in Bankitalia dove l’ultimo in carico è stato quello di vicedirettore generale (dal 2009), proiettata alla presidenza del consiglio di amministrazione della Rai. Come prima mossa, la signora non proprio spontaneamente si è ridotta lo stipendio. Ma questo non può far dimenticare i regali ricevuti dall’ex amministratore delegato della Banca Popolare di Lodi, Gianpiero Fiorani, quando era a capo della vigilanza ai tempi di Antonio Fazio, né tanto meno il fatto che sia indagata a Trani nel filone di inchiesta su presunti ritardi da parte di Bankitalia nel blocco di prodotti tossici che avrebbero avvantaggiato il Banco di Napoli del gruppo Intesa SanPaolo, guidato fino alla nomina a Ministro dello Sviluppo economico da Corrado Passera.

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