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HEDGE FUNDS ALLA SBARRA

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Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.

(WSI)
Anche gli addetti ai lavori restano
impressionati di fronte all’enorme
proliferazione degli
hedge fund, divenuti nel giro di
pochi anni gli incontrastati attori
primi della finanza moderna.
Ad essi, infatti, fa capo circa
la metà delle transazioni al
New York Stock Exchange, il
30% delle compravendite nel
mercato del debito. E la percentuale
sale al 55% per le obbligazioni legate ai Paesi
emergenti, per poi salire addirittura all’80% nei cosiddetti
titoli spazzatura.

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Di qui un vortice di quattrini da far venire il capogiro:
nel solo secondo trimestre del 2007, ben 58,7 miliardi
di dollari hanno trovato la loro strada in queste linee di
gestione. Persino in Italia, Paese di risparmiatori «conservatori
», si è assistito a una vera e propria hedge-mania,
con 5,4 miliardi di euro consegnati da inizio 2007,
e il patrimonio amministrato in ascesa del 36% in un
anno.


Di fronte a questa espansione, è mancata un’azione
dei regolatori. Certo, il tema è stato preso in considerazione
in più meeting ad alto livello, tra Basilea, Jackson
Hole e Davos. Ma la discussione non è approdata a
risultati significativi, o quantomeno adeguati alle dimensioni
del fenomeno. Ciò che è mancato, almeno a
livello pubblico, è una riflessione sistemica sul peso
che tale arsenale di fuoco nel suo assieme esercita sui
mercati finanziari. Ed è proprio questo il fatto nuovo:
Nove anni fa, Alan Greenspan poteva isolare con successo
la crisi di un solo hedge, Ltcm. Nel 2006, la crisi
di Amaranth, un default da 6 miliardi per il crollo dei
futues suo gas, non ha provocato conseguenze sui mercati.

Ma né Ben Bernanke, né la Bce hanno finora affrontato
un incendiio che si sviluppa da più focolai. Per
far questo, sarebbe necessario disporre quantomeno di
una mappa del bosco hedge, oggi oscuro ai più.
In particolare, vi sono due punti inesplorati: 1) la
struttura delle commissioni, che spesso spinge i gestori
verso una linea d’azione temeraria, con grave pericolo
per investitori e mercati. 2) L’elefantiasi raggiunta
dalle masse amministrate, a danno delle strategie operative.

Partiamo dal problema delle commissioni. Mettiamo
che un gestore hedge abbia chiuso il 2006, anno
eccellente, con un risultato superlativo, il 50% in più
(la quota del fondo passa cioè da 100 a 150). Su questo
guadagno il cliente retrocede al gestore il 20%, sicché
il profitto netto è di 40, non 50. Poi si arriva al 2007, il
fondo inciampa nei prestiti subprime, lasciando sul terreno
il 40% del suo valore. Di conseguenza, il patrimonio
crolla da 140 a 84. Ovviamente, il gestore non restituisce
nulla al cliente, che registra ora una perdita secca.

Ma non basta. Visto che il contratto-tipo prevede
che non vengano pagate altre commissioni finché la
quota non torni a 140, il gestore è tentato di chiudere il
fondo, scusandosi con i sottoscrittori e adducendo
«eventi unici che hanno messo a soqquadro i listini».
Nel frattempo, però, il suo conto in banca trabocca come
la cassaforte di Zio Paperone. Ad esempio, se aveva
iniziato il 2006 con 500 milioni di euro, il 2006 gli
ha regalato 50 milioni in compensi da performance. A
questo punto il nostro gestore può ritirarsi felicemente
dal business alle Bahamas, oppure riaprire un nuovo
fondo, oppure impiegarsi in una banca d’affari.

La struttura delle commissioni, insomma, è fatta in
modo da spingere i gestori ad assumersi rischi eccessivi
con lo scopo di massimizzare gli onorari di breve termine.
Certo, ci sono nomi al di sopra di ogni sospetto,
come Tudor, Citadel, Bridgewater, Pequot, Renaissance
ecc. ecc, nei quali i fondatori hanno spesso investita
una fetta notevole delle loro ricchezze
personali e guidano
l’azienda con grande etica e professionalità.
Ma con il big bang
e la moltiplicazione dei fondi, il
mercato ha cambiato pelle. e le
insidie sono cresciute.

L’altro problema dipende invece
dalla massa raggiunta. In origine,
gli hedge fund potevano
essere paragonati a rapide navi
corsare, al cui timone sedevano
bucanieri solitari, ruvidi, e intelligenti.
Ma un conto è quando ci
sono poche navi corsare e molti
galeoni da depredare, un altro è
quando il numero dei corsari supera
quello dei galeoni. E poco ci manca: nel 1996, gli
hedge fund avevano in cassa 150 miliardi di dollari, nel
2006 2.700, poi moltiplicati per 5 o per 6 grazie alla
leva. Ecco allora che enormi correnti di denaro si inseguono
sulle medesime operazioni, portando in ottovolante
valute, azioni e commodity. Quanta volte, nelle
settimane estive, abbiamo ascoltato manager che ripetevano
frasi come queste: «la nostra strategia è talmente
di successo da calamitare troppi investitori».
Oppure, «altri soggetti hanno venduto titoli identici a
quelli che noi avevamo in portafoglio».

Insomma ai vari
Dick, Harry e Tom è capitato di dare gli stessi ordini
allo stesso momento e con la stessa immensa leva finanziaria,
e i risultati sono sotto gl’occhi di tutti. Con
ciò, non è il caso di demonizzare gli hedge fund, che
hanno garantito efficienza e dinamismo ai mercati e
una via d’investimento appropriata ed efficace per una
fetta rilevante di clientela. Ma è un dato di fatto che
l’incessante aumento della stazza degli hedge e del loro
numero tende ad esasperare le fluttuazioni di mercato
e rende più problematico centrare performances che
giustifichino commissioni ricche, anche nell’ordine del
20%. Di qui alla tentazione del rischio temerario, il passo
è breve.

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