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Great Resignation: boom di dimissioni negli Usa, quasi la metà dei lavoratori è a caccia di un nuovo posto

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Negli Stati Uniti, il fenomeno delle Great Resignation, Grandi Dimissioni in italiano, sta diventando sempre più grande. Tanto che quasi la metà dei dipendenti Usa sarebbe alla ricerca di un nuovo lavoro. Sono i risultati dell’ultima indagine “Global Benefits Attitudes Survey 2022” di Willis Towers Watson, società di consulenza, da cui emerge che il 44% dei dipendenti americani è già attivamente impegnato nella ricerca o ha intenzione di farlo al più presto. Il sondaggio è stato condotto su un campione di 9.658 dipendenti di grandi e medie dimensioni in un’ampia gamma di settori a dicembre 2021 e gennaio 2022.

Grandi dimissioni: cosa succede negli Usa

Le Grandi Dimissioni, note anche come Grande Rimescolamento, sono diventate un segno distintivo del mercato del lavoro statunitense a partire dalla primavera del 2021, quando l’economia ha iniziato a uscire dal lockdown e la domanda di lavoratori ha iniziato a rialzare la testa. Risultato: il 2021 si è chiuso con 48 milioni di persone che hanno lasciato volontariamente il posto di lavoro, un record annuale. Un fenomeno che pare destinato a proseguire anche nel 2022: si calcola infatti che quasi 4,3 milioni di persone hanno lasciato il lavoro a gennaio, poco meno del record mensile stabilito a novembre.

Ma quali sono le ragioni alla base dei questa ondata di dimissioni? Oltre la metà dei lavoratori (56%) ha affermato che la retribuzione è uno dei motivi principali. Le famiglie americane sono alle prese con un’inflazione sempre più elevata, che sta deteriorando il loro potere di acquisto. Sempre secondo il sondaggio, il 41% lascerebbe il proprio lavoro anche solo per un aumento del 5%.

Ma quasi il 20% ha affermato che accetterebbe un nuovo lavoro con la stessa retribuzione, in presenza di altri benefit (prestazioni sanitarie, la sicurezza del lavoro, l’organizzazione del lavoro flessibile e i benefici pensionistici…), primo fra tutti  lo smartworking.

I lavoratori Usa vogliono più lavoro a distanza di quanto il loro attuale datore di lavoro sia disposto a concedere. Attualmente, il 26% degli intervistati lavora sempre o principalmente da casa e il 15% ha un’equa ripartizione tra casa e ufficio; ma quote maggiori (rispettivamente 36% e 22%) preferirebbero il lavoro a distanza.

E in Italia? Per ora il fenomeno del Great Resignation è rimandato

Secondo il 5° Rapporto Censis-Eudaimon sul welfare aziendale, il 56,2% degli occupati non è propenso a lasciare il proprio lavoro, nella convinzione che non troverebbe un impiego migliore. La percentuale sale al 62,2% tra i 35-64enni e al 63,3% tra gli operai. È vero che nei primi nove mesi del 2021 si registrano 1.362.000 dimissioni volontarie, con un incremento del 29,7% rispetto allo stesso periodo del 2020. Ma proprio nel 2020, quando a causa del Covid il mercato del lavoro si era paralizzato, si era verificato un picco negativo di dimissioni: solo 1.050.000 nei primi tre trimestri, ovvero -18,0% rispetto al 2019.

Si conferma però un trend di più lungo periodo di crescita delle dimissioni legato all’aumento della precarietà dei rapporti di lavoro. Tra i lavoratori italiani il pragmatismo vince sulla tentazione della Great Resignation, cioè le dimissioni al buio per cercare un impiego più gratificante o per fare altro. Fa più paura l’idea di ritrovarsi impantanati nella precarietà del mercato del lavoro. Eppure l’82,3% dei lavoratori (l’86,0% tra i giovani, l’88,8% tra gli operai) si dice insoddisfatto della propria occupazione e ritiene di meritare di più.

Retribuzioni che non crescono da troppo tempo. Il 58,1% dei lavoratori ritiene di ricevere una retribuzione non adeguata al lavoro svolto. La percezione è confermata dalle statistiche ufficiali: negli ultimi vent’anni le retribuzioni medie lorde annue nel nostro Paese si sono ridotte del 3,6% in termini reali (al netto dell’inflazione), mentre in Germania sono aumentate del 17,9% e in Francia del 17,5%. Pensando alla propria occupazione, il 68,8% dei lavoratori si sente meno sicuro rispetto a due anni fa (la percentuale sale al 72,0% tra gli operai e al 76,8% tra le donne). Nell’ultimo biennio il 66,7% dei lavoratori (il 71,8% tra i millennial) ha vissuto uno stress aggiuntivo per il lavoro e il 73,8% teme che in futuro dovrà fronteggiare nuove emergenze lavorative, con impatti rilevanti sulla propria vita quotidiana. Il lavoro, insomma, non paga abbastanza, non dà le certezze del passato, è fonte di tensione.

Lo stress aggiuntivo sul lavoro. Per il 51,3% degli occupati il proprio lavoro è molto cambiato durante la pandemia. Il digitale è stato determinante, ma non indolore. Infatti, complessivamente il 58,0% ha riscontrato difficoltà nell’utilizzo dei dispositivi digitali. In particolare, il 55,3% nella partecipazione ai meeting online e il 46,1% con la posta elettronica.

Sullo smart working i lavoratori italiani si dividono: il 25,1% non vorrebbe farlo, il 32,9% è soddisfatto e vorrebbe proseguire, il 42,0% opterebbe per una soluzione ibrida. Il tempo di lavoro si dilata: il 39,7% degli occupati afferma di non disporre di tempo libero in modo sufficiente (e la percentuale sale al 45,1% tra gli esecutivi), il 23,0% prevede un ulteriore peggioramento nel futuro.

Il ruolo del welfare aziendale. Come colmare il deficit di motivazione dei lavoratori? Le richieste alle aziende sono chiare: Il 91,2% dei lavoratori vorrebbe retribuzioni più alte, l’86,5% più servizi di welfare aziendale su ambiti come la sanità e l’assistenza per i figli, il 75,2% un maggiore supporto nel rispondere ai bisogni sociali quali la non autosufficienza di un familiare, la previdenza, l’istruzione dei figli.

In sintesi: più soldi, più welfare aziendale, aiuto in situazioni di vita difficili. Intanto aumentano le imprese che puntano sugli strumenti del welfare aziendale. Per il 62,5% di un panel di responsabili delle risorse umane di grandi imprese il welfare aziendale è una priorità e il 71,9% si dice pronto ad attivare servizi ad hoc per informare nel merito i lavoratori e rispondere ai loro bisogni. Piani di welfare «su misura», fatti di servizi e supporti personalizzati, disegnati sull’unicità dei bisogni del singolo lavoratore, possono dare un contributo decisivo alla domanda di riconoscimento dei lavoratori, stimolando un diverso rapporto con il lavoro e con l’azienda.