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FINANZA: METTETE PURE IN CONTO NUOVE FASI DI AVVERSIONE AL RISCHIO

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*Questo documento e’ stato preparato da Alessandro Fugnoli, strategist di Abaxbank ed e’ rivolto esclusivamente ad investitori istituzionali ovvero ad operatori e clientela professionale ai sensi dell’allegato n.3 al reg. n.16190 della Consob. Le analisi qui pubblicate non implicano responsabilita’ alcuna per Wall Street Italia, che notoriamente non svolge alcuna attivita’ di trading e pubblica tali indicazioni a puro scopo informativo. Si prega di leggere, a questo proposito, il disclaimer ufficiale di WSI.

(WSI) – Ci sono diciassette borse in rialzo dal primo gennaio. Due di queste, Sri Lanka (più 20 per cento) e Israele (più 4) salgono per fattori geopolitici locali (il profilarsi della fine della devastante guerriglia Tamil e il contenimento di Hamas a Gaza). Sette riflettono il recupero dei corsi delle materie prime (Brasile, Argentina, Colombia, Venezuela, Cile, Jamaica, Norvegia).
Sette rimbalzano da un ribasso gigantesco che ha esaurito, almeno temporaneamente, la sua forza distruttiva (Russia, Slovenia, Estonia, Lituania, Danimarca, Irlanda, Corea).

La diciassettesima borsa in rialzo, e non di poco (più 16 per cento), è quella di Shanghai. La cosa sembra molto interessante anche perché (forse proprio perché) non è confermata dall’andamento di Hong Kong, che scende del 9 per cento da inizio anno, in linea con i mercati internazionali. Incuriosisce anche il fatto che il rialzo coincida con la pubblicazione, in queste ultime settimane, di dati macro cinesi molto deludenti. La crescita annualizzata del quarto trimestre è scesa infatti a zero (non inganni il più sei anno su anno, frutto dei primi tre trimestri) con, in più, una discesa in termini assoluti (una discesa, non una decelerazione) delle esportazioni. Curioso anche il fatto che la borsa indiana, nel frattempo, abbia continuato a scendere.

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Avanziamo un’ipotesi indimostrabile, quasi un’illazione. La borsa interna cinese, da quando è stata ripristinata ai tempi di Deng, è stata spesso pilotata dal governo. Per un lungo periodo è stata fatta salire per attirare e assorbire gli eccessi di liquidità che i privati avevano accumulato nei decenni precedenti (troppi soldi tesaurizzati e poche merci da comprare era un classico problema delle economie socialiste). Poi è stata pilotata al rialzo durante la crisi asiatica in funzione anticiclica. E’ scesa (come tutte) dal 2000 al 2002, ma non perché l’economia cinese andava male (andava al contrario molto bene) ma perché non serviva che salisse. Nei tre anni successivi (2003-2006) è rimasta immobile mentre il bull market imperversava in tutto il mondo e l’economia cinese cresceva del 10 per cento all’anno.

A un certo punto, a fine 2006, il governo ha deciso di collocare sul mercato quote importanti di grandi società statali spesso poco profittevoli e ha fatto salire la borsa di quattro volte in 15 mesi. Collocato tutto quello che doveva collocare il governo ha abbandonato il mercato a sé stesso. L’indice è così ridisceso da 6100 nell’ottobre 2007 a 1700 nell’ottobre 2008.

Ora si può benissimo razionalizzare il rialzo di gennaio con l’ipervenduto precedente e con il pacchetto fiscale, ma si può anche ipotizzare, anche sulla scia delle dichiarazioni dei cinesi presenti a Davos, che il governo sia seriamente preoccupato e stia facendo ricorso molto aggressivamente a tutte le armi amministrative (formali e informali) che ha a disposizione, ancora oggi molto più numerose di quelle dei governi occidentali (tra cui, sempre in ipotesi, ordinare alle banche di sostenere la borsa). Non siamo ancora agli interventi strutturali di sostegno ai consumi (mettere in piedi un sistema pensionistico e sanitario decente che faccia sentire le famiglie più sicure sul loro futuro e meno propense a risparmiare), ma il fatto che la dirigenza cinese abbia deciso di darsi molto da fare è senz’altro utile. Per inciso, un’ulteriore ricaduta positiva di questo atteggiamento è il programma di acquisto strategico di materie prime, che sta sostenendo il corso dei non ferrosi e contribuendo a stabilizzare il greggio.

Barlumi di speranza anche dall’America. Certo, il pacchetto fiscale partorito dalla camera bassa è molto deludente. La qualità è davvero scadente (a parte le ciliegine sulle energie alternative e sul coordinamento informatico delle prestazioni sanitarie). I trasferimenti agli stati in bancarotta permettono a Schwarzenegger di non licenziare i suoi dipendenti ma non bastano certo a farne assumere di nuovi. La quantità è stata ricalcolata da Goldman Sachs in tre punti annualizzati di Pil nel secondo e terzo trimestre, un impulso quasi uguale, se abbiamo fatto bene i conti, a quello del pacchetto fiscale dell’anno scorso (che fu però concentrato su un solo trimestre).

C’è poi, nel pacchetto, la coda del diavolo del Buy America, sfacciato protezionismo. Non bisogna però esagerare con i timori. Geithner che attacca i cinesi e il Buy America sono concessioni alla componente sindacale del partito democratico, così come la camera bassa riflette gli umori delle componenti più radicali. Sono probabilmente concessioni retoriche che l’amministrazione Obama accetta per coprirsi a sinistra, sapendo che il Senato cancellerà il Buy America e che le affermazioni sul renminbi sono già state ritirate. Anche l’enfasi sugli elicotteri delle banche (quanti saranno mai) e sulle retribuzioni dei banchieri servono a coprire la scelta di ridurre davvero al minimo le nazionalizzazioni di banche.

Il brutto pacchetto fiscale, quindi, verrà migliorato dal Senato e in più, fortunatamente, è già scontato dai mercati. Diverso il caso (e qui sono i barlumi di speranza) per le altre misure che verranno annunciate la settimana prossima. Non ci sono solo le banche, ma anche rinegoziazioni di mutui che, quale che sia la soluzione tecnica, rallenteranno i pignoramenti di case e, ci si augura, la discesa del mercato immobiliare. Quanto alle banche, la soluzione leggera prospettata da Schumer (il Tesoro vende alle banche put sugli asset tossici a un prezzo d’esercizio a metà strada tra il valore a bilancio e il valore di mercato in cambio di azioni ordinarie o di call sulle azioni delle banche) ha il vantaggio di non costare quei tre-quattro trilioni della bad bank (che comunque si farà, in versione più piccola).

Curiosamente è la controproposta che fu avanzata dalla destra repubblicana quando Paulson presentò il Tarp prima maniera (quello dell’acquisto diretto degli asset tossici). Ora che le garanzie sul debito vengono proposte dai democratici vedremo se la destra repubblicana vi si opporrà. Al di là dei dettagli tecnici, la settimana prossima si gioca una grande partita per l’amministrazione Obama, per il sistema finanziario globale e per i mercati.

Geithner sa che dovrà stupire. Dovrà proporre qualcosa di grosso, ma anche di completo e sorprendente. Come se non bastasse, dovrà riuscire a non spaventare il dollaro e i bond governativi, di pessimo umore sulla parte lunga da quando sentono i trilioni aggiungersi ai trilioni nel conto delle misure anti-crisi.
A proposito di bond governativi, se la settimana prossima ci dovesse essere ulteriore debolezza potrebbe essere interessante comprarli, riducendo nel caso l’esposizione sui corporate bond di alta qualità, che in queste ultime settimane sono stati molto richiesti dal mercato.

Ribadiamo che per quest’anno, al di là del cash che deve essere comunque ben rappresentato in portafoglio, è bene concentrarsi sui rischi moderati, ovvero bond governativi e corporate di alta qualità. Questi rischi moderati, come abbiamo visto in gennaio e come continueremo a vedere nei prossimi mesi, avranno tipicamente un andamento divergente. Nelle fasi di avversione al rischio e di paura della deflazione andranno bene i governativi, in quelle di maggiore propensione al rischio e di timori d’inflazione andranno meglio i corporate. Si tratterà quindi di passare periodicamente dagli uni agli altri.

Una cosa importante da togliersi dalla mente, crediamo, è quella di pensare a un magico punto di svolta della crisi, soprattutto se questo punto di svolta lo si immagina vicino. Anche nella migliore delle ipotesi (un piano Geithner convincente e non penalizzante sulle banche che non costi troppo al Tesoro) avremo un bear market rally (di cui si vede qualche prova in questi giorni) e un rallentamento delle dinamiche viziose in corso.

In altre parole, un piano robusto sarà un passo avanti molto importante e prezioso e darà per la prima volta la possibilità di intravedere una luce in fondo al tunnel. La cosa da non dimenticare è però che il tunnel sarà comunque molto lungo.

Nel suo stile ruvido (ma lontanissimo dai toni disperati che vediamo ormai spesso in molte analisi), il professor Rogoff ricorda oggi sul Wall Street Journal che la crisi finirà, ma probabilmente fra un paio d’anni. La buona notizia è che case e borse hanno già percorso buona parte della loro via dolorosa (qualcosa rimane ancora da fare), quella meno buona è che non c’è da illudersi troppo su un’uscita anticipata dalla crisi, anche in presenza di politiche corrette.

Rogoff afferma anche che in situazioni analoghe, in passato, l’accumulo di debito pubblico (prodotto dai salvataggi bancari e dai minori introiti fiscali in tempi di crisi) ha spesso indotto i governi a usare l’inflazione come scorciatoia per riequilibrare i conti. Rogoff, come El-Erian (che su questa base suggerisce di evitare i governativi lunghi), ha lavorato a lungo al Fondo Monetario e ha visto molti emergenti uscire dalle crisi finanziarie facendosi aiutare dall’inflazione.
Sono pareri autorevolissimi, quelli di Rogoff e di El-Erian. Li vorremmo però chiosare con alcune osservazioni.

La prima è che da metà degli anni Novanta in molti paesi emergenti (quanto meno in quelli più seri) la dose d’inflazione post crisi è andata calando. Non ci sono stati, salvo eccezioni, casi di iperinflazione. La seconda è che tra i paesi sviluppati l’utilizzo dell’inflazione è stato ancora più ridotto. C’è poi il caso importante del Giappone, che si è tenuto stoicamente il suo debito, l’ha ridotto lentamente negli ultimi anni e non è riuscito, per quanto ci abbia provato, a creare un grammo d’inflazione. La terza osservazione è che la decisione sull’inflazione apparirà sull’agenda di governi e banche centrali nel 2011 al più presto. Nel 2009 e 2010 il problema sarà quello di evitare la deflazione. Negli ultimi tre mesi, nota Rosenberg di Merrill Lynch, l’inflazione headline americana è scesa a una velocità annualizzata dell’8.4 per cento. Negli anni Trenta, aggiungiamo noi, i prezzi scendevano del 10 per cento l’anno.

Nei prossimi due anni ci sembra difficile pensare a possibili fonti d’inflazione. Aumenti salariali? Forse che il mezzo milione di nuovi disoccupati americani che vedremo venerdì (solo mezzo milione, ha esclamato sollevato oggi il mercato sulla base delle proiezioni ADP) riuscirà a trovare un nuovo impiego (ammesso che ci riesca) con uno stipendio più alto di quello che ha perduto? Forse un’esplosione della domanda di materie prime, con i produttori di auto che non sanno più dove mettere le macchine invendute?

Chi parla d’inflazione o iperinflazione dovrebbe provare a dirci il nome di un prodotto o di un servizio (o anche di un asset) che fra due anni sarà più caro di oggi. Probabilmente le banche centrali (con l’eccezione della Bce) sono contente che una parte del mercato pensi con tenacia all’inflazione imminente mentre i prezzi stanno scendendo come non accadeva da decenni. Guai se si diffondesse una psicologia deflazionistica. Nessuno comprerebbe più niente se fosse certo di potere pagare di meno sei mesi più avanti.

A scanso di equivoci, quindi, diciamo che i bond governativi lunghi non sono da sposare e tenere per 10 o 30 anni. Diciamo solo che per i prossimi 24 mesi ci saranno di nuovo fasi di avversione al rischio e di paura di deflazione che li riporteranno vicini ai prezzi massimi di gennaio. Nel ciclo recessivo precedente, del resto, i tassi dei decennali toccarono il livello minimo non nell’estate del 2001, quando il Pil fu per un attimo negativo, né dopo l’11 settembre, quando la Fed abbassò i tassi all’uno per cento. Il livello minimo dei tassi fu toccato nella primavera del 2003, quando la ripresa era già iniziata. Sta forse già iniziando, la ripresa?

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