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FIAT, IL DOVERE DI FALLIRE

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Se un business non va, non va. Se la sua prospettiva strategica è cieca, niente gli restituirà la vista. L’accanimento terapeutico a spese dello Stato è la peggiore delle terapie.

L’Italia, sotto il ricatto pseudo-solidarista del posto di lavoro in discussione, di queste cure mortifere ha fatto il pieno, anzi ha fatto sistema e filosofia di vita per molti decenni.

Con questo risultato: i posti di lavoro difesi erano e sono rimasti finti, precari, pagati con il ritardo o la negazione dello sviluppo e dell’innovazione, e quelli veri procurabili attraverso l’interazione tra buone regole e mercato libero non sono mai stati creati.

Così tutta la classe politica eccettuati i radicali sta inscenando la solita orchestrazione da “tragidiaturi” sul massacro sociale di Termini Imerese, lo stabilimento che va salvato a tutti i costi, dicono; e intanto tutti i costi della loro retorica li paga il Sud con una disoccupazione giovanile strutturale e diffusa che fa vergogna e si combina bene, quella sì, con il potere immarcescibile della criminalità organizzata nel disfacimento sociale.

Il direttore dell’Unità, l’unico liberal al mondo capace di sposare una fedeltà aziendale canina allo spirito ribaldo dei girotondi giustizialisti, ce la mena da giorni sostenendo che la colpa della crisi Fiat è del governo e che Ronald Reagan, lui sì, firmò un assegno per la salvezza della Chrysler.

Ci prende in giro, la nostra frivola Verdurin. Reagan convinse le banche a prestare dei soldi a un’industria che non era più solvibile, ma che poteva ristrutturarsi e stare sul mercato, e Chrysler li restituì fino all’ultima lira.

Questo assegno le banche private lo hanno già firmato intestandolo alla Fiat, e in più lo Stato ha già dato tutti gli aiuti compatibili con un’economia libera, europea e globalizzata; ma la crisi dell’auto italiana galoppa, e ora bisogna decidere se questo fallimento va innanzitutto a carico degli azionisti, mentre lo Stato si prende cura delle sue conseguenze sociali con gli strumenti ordinari detti ammortizzatori sociali e un’iniziativa di sviluppo, per creare nuovi posti anche nel Sud in nuovi settori produttivi, oppure se si socializzano le perdite come al solito e si buttano le conseguenze della crisi sul sistema e sulla società italiana mascherando per l’ennesima volta (l’ottava? la nona?) il fallimento industriale degli Agnelli.

Fallire si può, non è un disonore cedere le armi al mercato e diventare una branca dell’industria automobilistica più forte dopo cent’anni piuttosto ben portati e in un mondo radicalmente trasformato dalla globalizzazione.

Il problema è che in certe circostanze fallire si deve, punto e basta. Pagandone le conseguenze nel modo corretto, senza spirito di rivalsa sociale o di vendetta.

E si deve altresì smettere di ingurgitare soldi pubblici e privati, che dovrebbero incentivare lo sviluppo e la modernizzazione dell’economia italiana anziché curare lo stato terminale di un’azienda senza futuro, per un progetto che non esiste più: si paga, si svende, si chiude.

Anche Termini Imerese, se necessario. Perché lì bisogna creare posti veri e un sistema industriale che espanda e innovi la base produttiva del Mezzogiorno, non mantenere in vita l’ennesima fabbrica assistita.

Che i vescovi non capiscano questo linguaggio, è comprensibile, perché da sempre le coscienze, non gli Stati, si governano con i paternostri. Che non lo capiscano i deputati e i senatori e i ministri di Forza Italia, impegnati nella rincorsa demagogica, è strabiliante.

Lo stato in Italia, come in Germania e in Francia, svolge funzioni storiche diverse da quelle dei governi anglosassoni. Anche i posti di lavoro di questo giornale e di tante altre aziende editoriali sono in parte sovvenzionati dallo Stato.

Ma se nonostante questo fallissimo i nostri bilanci, chiuderemmo senza chiedere la pubblica carità. Che non funziona. Nessuno deve essere abbandonato a se stesso e alla disperazione sociale.

Ci sono modi per attenuare gli effetti di un fallimento aziendale che sono compatibili con una concezione efficiente e non statolatrica dell’economia. Ci sono modi per trasformare perfino un fallimento in un’occasione, invece di trascinare solidalmente tutti nel pozzo nero dei debiti di un business senza speranze.

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