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FATEVENE UNA RAGIONE: IL RALLENTAMENTO C’E’

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*Alfonso Tuor e’ il direttore del Corriere del Ticino, il piu’ importante quotidiano svizzero in lingua italiana. Il contenuto di questo articolo esprime esclusivamente il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.

(WSI) – Le speranze di un’accelerazione della crescita delle economie occidentali sono completamente tramontate. L’economia europea, in base alle previsioni del FMI e della stessa Unione Europea, crescerà quest’anno meno dell’anno scorso; il revival dell’economia giapponese è già finito; e i dati economici indicano chiaramente che è «stanca» anche la crescita dell’economia statunitense, a conferma della tesi che, una volta esauritisi gli effetti degli stimoli fiscali e monetari, anche l’economia americana non avrebbe registrato risultati molto migliori di quelli europei.

Se questi segnali dovessero confermarsi cadrebbe l’assunto tanto ripetuto da apparire indiscutibilmente corretto che la scarsa crescita dell’economia europea è dovuta al ritardo delle riforme strutturali, che non permettono al Vecchio Continente di avere un’economia flessibile, come quella statunitense.

In pratica, le rigidità del mercato del lavoro, l’eccessiva pressione fiscale e il peso delle regolamentazioni di ogni genere hanno impedito all’economia europea di cogliere le opportunità offerte dall’apertura dei mercati, ossia dalla globalizzazione. Questa tesi mette in risalto indubbi punti di debolezza dell’Europa e sprona il Vecchio Continente a rivedere regole e meccanismi non più adeguati ai tempi, ma non coglie molto probabilmente il cuore del problema.

Esso può essere succintamente riassunto in questa frase: il mondo dei paesi di vecchia industrializzazione sta «pagando» attraverso minori tassi di crescita, inferiori aumenti dei redditi delle famiglie e livelli di disoccupazione più elevati il prezzo dell’apertura dei mercati.

Quindi esistono due realtà ben distinte: da un canto, i paesi emergenti, con in testa la Cina, che stanno vivendo un vero e proprio boom economico, la seconda, quella dei paesi di vecchia industrializzazione in difficoltà ad adattarsi alla maggiore competizione sui mercati internazionali.

Questa divisione del mondo in due è stata finora offuscata dalla crescita dell’economia statunitense, che, come abbiamo sempre sostenuto, non era autosostenibile ed era solo il frutto della politica monetaria fortemente espansiva della Federal Reserve, del calo del dollaro e della politica di «deficit spending» dell’amministrazione Bush oltre che del fatto che gli Stati Uniti continuano a vivere al di sopra dei loro mezzi, come dimostra il crescente disavanzo commerciale statunitense.

Quindi, questo rallentamento della crescita, anche negli Stati Uniti, del quale anche i mercati finanziari sembrano cominciare a prendere atto, non è causato tanto dal rialzo del prezzo del petrolio o da altri fattori di natura congiunturale, ma è il frutto del processo di aggiustamento determinato dall’apertura dei mercati, che per loro natura tendono far convergere le attuali grandi differenze tra costi del lavoro per unità di prodotto.

E infatti, oggi, non si discute tanto di politiche monetarie (che in tutti i paesi industrializzati rimangono fortemente espansive, anche negli Stati Uniti malgrado i recenti rialzi dei tassi) e non si discute più di politiche fiscali (pressoché ovunque i disavanzi pubblici continuano a crescere).

Si discute invece di squilibri dell’economia internazionale, come quello rappresentato dal crescente disavanzo commerciale americano, e di misure di protezione contro la penetrazione dei prodotti cinesi. In pratica la politica economica sembra confondersi sempre più con la politica estera. Quale potrebbe essere il possibile esito di tutto ciò?

Misure di rattoppo, come quelle di protezione contro l’export cinese di prodotti tessili e di abbigliamento, che comunque serviranno per placare le proteste di imprenditori ed operai del settore, ma non a risolvere il problema. In realtà, la soluzione del problema è ridefinire le attuali regole mondiali del gioco che oggi non paiono sostenibili. Ma questo obiettivo appare lontano, anche perché nello stesso Occidente vi è scarsa convergenza sull’analisi delle cause delle attuali difficoltà.

È quindi probabile che l’intera partita economica e politica mondiale si trascini ancora e che il perno dello scoppio di una grave crisi, che è già oggi nelle carte, sarà rappresentato dall’esplosione del disavanzo estero americano e da una crisi del dollaro.

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