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Evasione fiscale ed effetti su richiesta BTP: non sottovalutate la relazione

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Il risanamento delle finanze pubbliche italiane è un problema non solo di numeri, di saldi tra entrate e uscite, ma anche di credibilità.

Un Btp è una promessa di pagamento dello Stato fra 10, 15, perfino 30 anni: se la promessa non è credibile, gli investitori non comprano. Ed è credibile solo se lo Stato si dimostra capace di far rispettare le proprie regole. Per questo, oltre che per questioni di equità, indispensabile nel momento in cui si chiedono sacrifici al Paese, oggi, abbattere l’evasione fiscale è una priorità assoluta.

L’elevato tasso di evasione è l’indice di quanto in basso sia caduto il livello di legalità in Italia. Ancora più preoccupante che venga quasi percepito, soprattutto all’estero, come un tratto endemico della nostra società, con un senso di indignata rassegnazione per uno Stato incapace di far rispettare le regole che sforna a getto continuo.

Abbattere l’evasione è quindi la strada per elevare il senso di legalità, perché è anche il modo più efficace di combattere criminalità organizzata, corruzione, reati finanziari, affarismo, abusi. E ricostruire quindi la credibilità dello Stato.

Negli ultimi anni, e soprattutto con l’ultima manovra, lo Stato si è dotato di tutti gli strumenti necessari a combattere efficacemente l’evasione. Lo Stato può ormai controllare ogni pagamento, transazione finanziaria o investimento dei cittadini; e ha limitato l’uso del contante per avere sempre una traccia di come utilizziamo i nostri soldi.

Può analizzare le nostre abitudini di spesa col redditometro, e verificare l’attendibilità dei redditi di professionisti e piccole realtà economiche con studi di settore sempre più analitici. Può sapere come e dove investiamo all’estero grazie ai trattati sullo scambio di informazioni; e se lo facciamo in un paese della black list del fisco, scatta l’inversione dell’onere della prova: si presume l’evasione, salvo prova contraria.

Lo Stato si può avvalere di criteri molto ampi per contestare residenze estere di comodo: per pagare le tasse in Italia basta che qui risieda il suo “centro degli affetti”. Si è dotato di norme contro le società di comodo; contro l’uso elusivo del debito; contro l'”abuso di diritto” (un’operazione o una transazione finanziaria evade le imposte se, in assenza di vantaggi fiscali, non sarebbe stata effettuata); contro l’evasione dell’Iva intra-comunitaria, facendola pagare a chi compra un servizio da un altro paese; contro le transazioni di comodo con l’estero, imponendo la segnalazione di tutti i pagamenti verso I paesi privi di trattati. E ha a disposizione un apparato imponente, formato, caso unico al mondo, da ben tre istituzioni, Agenzia delle Entrate, Guardia di Finanza ed Equitalia.

Gli strumenti e i mezzi per incidere significativamente sull’evasione ci sono. Adesso, ci vogliono i risultati. Altrimenti, la perdita di credibilità dello Stato sarà irreversibile. Ma un paese molto indebitato e poco credibile, prima o poi è destinato al default. Poiché la posta in gioco è talmente alta, è stato giusto concedere allo Stato un potere così intrusivo nel privato dei cittadini; ma se, a fronte di tanto potere, lesivo delle libertà individuali, i cittadini non potranno presto godere dei benefici concreti di una minore evasione e maggiore legalità, l’unico risultato sarà la percezione di uno Stato ancora più iniquo e meno credibile. Perché non accada, è importante utilizzare meglio e diversamente gli strumenti disponibili. Alcune proposte le presenterò in un articolo successivo. Ma due mi sembrano particolarmente importanti. La prima, è una maggiore trasparenza. Per comprendere e giudicare l’efficacia dell’azione dello Stato, agli italiani deve essere fornito un dato ufficiale, verificabile, analitico e indipendente sull’ammontare dell’evasione.

In ottobre, in concomitanza con la pubblicazione definitiva della contabilità nazionale, e contestualmente alla discussione sulla legge finanziaria, l’Istat (di concerto con Banca d’Italia, Agenzia del territorio, Agenzia delle Entrate ed Equitalia) dovrebbe comunicare quello che altrove si chiama tax-gap: la differenza, per ciascuna imposta e complessiva, tra il gettito fiscale effettivo e quello teorico, calcolato sulla base di aliquote nominali e stime ufficiali di reddito, consumi, investimenti, profitti e ricchezza degli italiani (gli stessi dati che sono anche l’input per le politiche fiscali del Governo).

Agenzia delle Entrate e Guardia di Finanza già riferiscono il numero di accertamenti effettuati e le imposte evase recuperate. Ma non dicono nulla sul livello di evasione: per quel che ne sappiamo, potrebbe crescere più rapidamente di quanto recuperato. Né sul livello di compliance: una riduzione delle imposte evase potrebbe essere anche indice di una maggiore legalità diffusa. Solo grazie al tax-gap, l’opinione pubblica può avere una corretta percezione dell’efficacia nella lotta all’evasione, e magari convincersi a cambiare i propri comportamenti; e lo Stato rendere conto del proprio operato. I dati non verificabili, le congetture, le indiscrezioni creano solo confusione, e possono essere socialmente dannosi.

La seconda è aggiungere un obiettivo ufficiale per la pressione fiscale, a quelli per deficit, debito e saldo primario. Lo scopo della lotta all’evasione, infatti, non dovrebbe essere quello di aumentare il carico impositivo; ma, prima, di redistribuirlo, a favore di chi lavora, investe e produce; e poi ridurlo.

Perché sviluppo economico significa voler investire di più e poter consumare di più. Per farlo, meglio ridurre la pressione fiscale, che in Italia è già elevata. A settembre, prima della manovra Monti e delle previsioni di recessione, il Fondo Monetario (FMI) aveva stimato che la pressione fiscale nel 2012 in Italia sarebbe arrivata al 47% del Pil: un dato ormai sottostimato, ma già superiore di 3 punti alla Germania; vicino ai paesi dalla fiscalità più elevata come Olanda e Svezia (46,6% e 48,5%), ma che offrono servizi pubblici molto migliori; e che eccede di ben 10 e 15 punti il dato medio dei paesi, rispettivamente, del G7 e G20, coi quali dobbiamo competere. Ci batte solo la Francia, che non è esattamente un modello da seguire.

Stabilendo un tetto alla pressione fiscale e, auspicabilmente, un obiettivo di discesa nel tempo, il Governo chiarirebbe che l’obiettivo della lotta all’evasione è ridurre le tasse, e renderle meno inique, promuovendo così lo sviluppo.

E dissiperebbe la sgradevole sensazione che l’evasione sia un’utile paravento al non voler, o non saper, ridurre la spese pubblica, gonfiata dalla giungla di agevolazioni, sussidi, inefficienze, mala gestione, contributi, assunzioni clientelari, enti e opere inutili che ogni cittadino conosce per esperienza.

Se per esempio il dato di 150 miliardi l’anno di imposte evase, che è stato riportato da più parti, fosse realistico, una volta sconfitta l’evasione la pressione fiscale salirebbe al 56%, la più alta tra tutti 60 paesi monitorati dal FMI (oggi è la Finlandia col 53%). Un record poco invidiabile che ci condannerebbe al declino secolare. Quindi, se il Governo è veramente convinto che l’evasione sia pervasiva e che lo Stato sia in grado di ridurla, bene farebbe a stabilire subito un tetto agli introiti fiscali per gli anni a venire.

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