Società

EUROPA:
IL RISCHIO RESTA
LA RECESSIONE

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*Michele Pezzinga e’ lo strategist di CentroSim. I suoi commenti non implicano responsabilita’ alcuna per Wall Street Italia, che notoriamente non svolge alcuna attivita’ di trading e pubblica tali indicazioni a puro scopo informativo. Si prega di leggere, a questo proposito, il disclaimer ufficiale di WSI.

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(WSI) – Giornata fondamentale per i mercati, quella odierna: nel pomeriggio (alle
14:30) sono infatti attesi i dati sui prezzi al consumo USA, dai quali è
attesa la temuta conferma o una rassicurante smentita al segnale di allarme
emerso venerdì scorso con i prezzi alla produzione.

Il +0,8% registrato in
gennaio dalla voce ex alimentari ed energia ha infatti rimesso in gioco le
attese di un brusco rialzo dell’inflazione, e di riflesso dei rendimenti
obbligazionari, un fenomeno, quest’ultimo, che si è già iniziato a
concretizzare nei giorni scorsi con la caduta dei bond a più lunga scadenza.

In realtà, quello sui prezzi alla produzione è stato un segnale isolato, cui
di per sè difficilmente può essere attribuita la responsabilità della temuta
inversione di trend e della fine dell’era di bassa inflazione. Potrebbe
trattarsi solo di un tentativo delle imprese, presto destinato a fallire, di
alzare i prezzi con l’inizio dell’anno, dopo una lunga fase di stabilità, in
cui hanno dovuto assorbire gli aumenti dei costi di energia e materie prime.

oppure di una concomitanza sfortunata di incrementi che hanno coinvolto
una-tantum beni come tabacco, alcolici e giornali, assieme a numerosi altri
comparti, auto e pneumatici in primis, dove la sostenibilità futura di tali
aumenti è per lo meno dubbia. Tuttavia, anche se la relazione tra prezzi
alla produzione e prezzi al consumo non è mai così diretta e meccanica, un
altro segnale di allarme – cioè un dato superiore al +0,2% mensile atteso
oggi (pari ad un +2,2% su base annua, invariato da dicembre) per la
componente “core” dell’inflazione al consumo – avrebbe in questo momento
effetti deleteri sui mercati.

Affosserebbe ulteriormente l’obbligazionario e
si propagherebbe alle Borse e al dollaro, la cui recente debolezza potrebbe
persino accentuarsi fino a rivedere i minimi di fine 2004, nell’area
1,35-1,36 contro euro. Magari tra un mese o due questi allarmi prematuri non
troveranno conferma, e tutto si rivelerà in una bolla di sapone; ma nel
frattempo i danni per i mercati potrebbero essere notevoli.

Se i problemi venissero solo da un’accelerazione della crescita, e il costo
da pagare fosse una maggiore inflazione, lo scenario per i mercati sarebbe
abbastanza chiaro: ci sarebbero vinti (i bond e le realtà azionarie più
difensive) e vincitori (le Borse in generale, soprattutto sui comparti
ciclici), dunque spostamenti di asset allocation in un quadro comunque
dominato dal tema della ripresa economica.

Ma così potrebbe non essere. Due
altri elementi dovrebbero infatti attirare l’attenzione degli addetti ai
lavori: il dollaro e le quotazioni del greggio. E’ vero, si tratta di
variabili inversamente correlate, se non altro perchè la debolezza del
cambio fa aumentare il prezzo dell’energia espresso in quella valuta o, come
ora azzarda Soros, perchè i maggiori Paesi esportatori di petrolio (e dunque
importatori di dollari) preferiscono sempre più spesso trasformare in altre
valute i loro introiti. E quindi più aumenta la domanda mondiale di greggio,
più in parallelo crescono le pressioni al ribasso sul dollaro.

Anche se non
si tratta di un produttore di greggio, la Corea del Sud ieri ha dichiarato
di voler diversificare maggiormente le proprie riserve valutarie, finora
concentrate sull’area dollaro; e trattandosi di uno dei principali detentori
internazionali di riserve, con oltre 200 mld di dollari, di cui il 90%
investito nel cambio USA, la sua presa di posizione ed il suo esempio non
sono elementi da trascurare.

Certo, poca cosa rispetto ai 3.600 mld di
riserve detenute dagli altri Paesi asiatici, principalmente Giappone e Cina,
la cui posizione sul dollaro non sembra cambiata. Ma e’ quanto basta per
innescare ieri lo scivolone del dollaro (significativo il suo -1,5%
giornaliero). Se per l’inflazione USA, alla luce del recente forte
incremento dei prezzi all’import (+0,9% in dicembre, frutto però
principalmente del rialzo del greggio), la debolezza del dollaro può
rappresentare una brutta notizia – assieme al rallentamento della
produttività era uno degli elementi di cautela citati da Greenspan nella
recente Testimonianza al Congresso sul possibile riemergere di tensioni
inflazionistiche -, per la crescita europea ed asiatica (salvo dove il cambio
è agganciato alla valuta USA) si tratta di una novità davvero pessima.

Aggiungendoci il nuovo, deciso rialzo del greggio, che finora è stato
interpretato in chiave recessiva anzichè inflazionistica, abbiamo per
l’Europa Continentale un quadro che punterebbe dritto verso la recessione.
Altro che ripresa e necessità di alzare i tassi da parte della BCE! Il
rischio maggiore di questa fase è dunque la combinazione di qualche segnale
di maggiore inflazione USA in un contesto che lì è ancora di crescita
moderata, ma che nelle altre aree chiave del mondo industrializzato,
dall’Europa al Giappone, parla già di significativo rallentamento, se non di
recessione.

E per il Giappone ancora una volta determinanti saranno
l’effetto cambio e la tenuta o meno del boom cinese. Un’ulteriore caduta dei
bond senza che a ciò si accompagnino migliori prospettive di crescita,
economica e degli utili, penalizzerebbe doppiamente le Borse, sia nei
comparti più difensivi (per il confronto con i rendimenti obbligazionari),
sia in quelli più ciclici.

Per questo si tratta di una situazione da seguire
con cautela, che potrebbe dar luogo, dopo l’ininterrotta ascesa dei listini
dalla fine della scorsa estate, ad una più brusca e generalizzata correzione
di rotta. In questo senso, un altro segnale inflazionistico nel pomeriggio è
proprio quanto basterebbe per innescare la temuta nuova ondata di vendite.

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