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Euro colabrodo: invece di spellare i risparmiatori, prepariamoli al peggio

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(WSI) – Dopo appena un mese dalla ormai celebre copertina “Don’t do it”, con una pistola puntata sull’euro, l’Economist esce con un’altra copertina nella quale afferma che sia ormai “Time for Plan B” vista la “euro crisis”. La tesi è che la scelta fatta di procrastinare nel tempo la soluzione dei debiti sovrani europei in eccesso non funziona, e occorre provvedere subito a ristrutturarli in via definitiva.

Con cautela, ma anche con precisione statistica, il settimanale inglese argomenta che una quota dei debiti non può essere rimborsata, sostenendo che è possibile farlo senza incappare in una nuova crisi stile Lehman. Il pulpito da dove viene la predica riflette le opinioni di quello stesso mercato che, lasciato libero di operare per omissioni delle autorità di controllo, ha riversato sulla finanza pubblica la sua crisi e oggi si erge a censore degli stati.

L’ardita posizione dell’Economist insegna che l’adesione all’Ue non è un problema “di fede”, come viene trattato soprattutto in l’Italia, ma pratico: occorre trovare un rimedio prima che accada l’inevitabile. Forti del fatto che, tra lo scandalo e l’incomprensione, siamo stati i primi a sollecitare un “Piano B” per l’euro, una qualche puntualizzazione va fatta.

Innanzitutto esiste una sola soluzione permanente a basso costo, quella dell’unione politica; non potendola raggiungere (e gli inglesi guidano il drappello degli oppositori), non si deve sparare sui soldati-risparmiatori che hanno perso la guerra condotta male dallo stato maggiore. La politica europea è schizofrenica: dieci membri restano fuori dall’euro, riconoscendo che l’aggiustamento del cambio e dei tassi dell’interesse è condizione di loro sopravvivenza; 17 sono nell’euroarea, con disavanzi strutturali nelle bilance dei pagamenti aggiustabili solo con politiche deflazionistiche che aggravano il peso del loro debito pubblico; le autorità di Francoforte e di Bruxelles sostengono nei consessi internazionali una politica valutaria favorevole alla flessibilità dei cambi, in particolare per il rapporto dollaro/yuan, come unica forma di aggiustamento degli squilibri nelle bilance estere, ma la negano per l’euroarea.

Riconoscere la possibilità di default di quote del debito sovrano di taluni paesi europei produrrebbe, a governane immutata, conseguenze disgreganti dell’Unione europea molto più di quanto non accadrebbe se alcuni tra essi decidessero un opting out “successivo” rispetto a quello previsto dal Trattato di Maastricht (al quale il Regno Unito ha fatto ricorso e di cui continua a beneficiare).

Se il debito pubblico dei paesi che dovessero scegliere questa soluzione entrasse in seria crisi, esistono tecniche finanziarie che possono evitare il default: dalla cessione del patrimonio pubblico (in parte usata dall’Irlanda e possibile in Italia) alla ristrutturazione dei tassi e dei tempi di rimborso con totale garanzia del valore principale.

Per quanto riguarda l’Italia, la mia posizione è chiara e non è stata contestata né sul piano pratico, né su quello politico: l’attuazione del “Piano A”, quello di creare condizioni per restare nell’euro (che potrebbe aggravarsi se si accettasse lo scambio proposto dalla Merkel garanzia contro maggiore rigore fiscale), ha costi di più lungo periodo superiori a quelli che si avrebbero nel caso di attuazione del “Piano B”, ossia di uscire dall’euro avendo preordinato decisioni e alleanze internazionali per superare la fase critica senza incorrere nel rischio di perdere la sovranità fiscale residua e di incappare in una deflazione.

Il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, ha mostrato piena coscienza della gravità della crisi ed è troppo intelligente per non avere in mente come fronteggiarla nell’ipotesi che essa colpisca l’Italia a seguito dell’aumento dei tassi dell’interesse sul debito pubblico. Speriamo che la sua idea non sia la tassa patrimoniale che aleggia tra i benpensanti. Forse è il caso che la pubblica opinione venga preparata ai sacrifici necessari, consentendo che si sviluppi un serio dibattito in materia, come fatto pragmaticamente, ma con visione distorta, dall’Economist.

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