Società

Effetto domino su Assad

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New York – Dopo aver eliminato Osama bin Laden e rovesciato Muammar Gheddafi il presidente americano Barack Obama punta alla caduta del leader siriano Bashar Assad.

La Casa Bianca non ama l’espressione «presidente di guerra», evita di parlare di «missioni compiute» e teorizza il ruolo di leadership americana nel mondo «guidando dal sedile posteriore» ma ciò non toglie che da Abbottabad a Tripoli fino a Damasco stia prendendo forma una dottrina Obama contro despoti e dittatori. Per capire di cosa si tratta bisogna ascoltare Ben Rhodes.

Il trentenne esperto di strategia che scrive gran parte dei discorsi di Obama sulla sicurezza nazionale, quando afferma che «questa amministrazione segue politiche diverse su ogni scenario» partendo dalle «condizioni sul terreno». Nel caso di Bin Laden l’eliminazione è arrivata con la formula militare che coniuga intelligence, droni e forze speciali perché ha consentito di operare sul terreno di un Paese alleato come il Pakistan a dispetto dei suoi servizi segreti, considerati infiltrati da elementi jihadisti.

Si è trattato dunque di un’operazione tutta americana mentre nel caso dell’intervento in Tripoli la scelta è stata di puntare sull’accoppiata fra legittimazione internazionale – la risoluzione Onu, il sostegno della Lega Araba e l’intervento della Nato – e il sostegno ai ribelli con metodi non tradizionali come l’addestramento da parte delle forze speciali, la forniture d’armi giunte da Paesi alleati e l’impiego delle più sofisticate apparecchiature di intelligence per suggerire alle tribù berbere quando iniziare l’assalto finale verso la Piazza Verde di Tripoli.

Nel caso della Siria la formula a cui si affida l’amministrazione Obama è un’altra ancora: nessun intervento militare, ma massiccio sostegno all’opposizione interna grazie a gioielli della tecnologia come le valigette che consentono di creare reti Internet capaci di sfuggire alla sorveglianza del regime, nella convinzione che il movimento di protesta interna contro Assad ha dimensioni tali da aver determinato una «cambiamento di rapporti di forza sul terreno», come li definisce William Burns, vice del Segretario di Stato Hillary Clinton, riferendosi all’indebolimento degli apparati di sicurezza del regime.

L’unico tassello che accomuna l’operazione-Siria della Casa Bianca a quella libica sta nel costante lavorìo diplomatico per accrescere l’isolamento del dittatore con un misto di sanzioni nazionali, multilaterali e, quando possibile, delle Nazioni Unite.

La differenza di approcci alle crisi presenti nel mondo arabo-musulmano può fa apparire l’amministrazione Obama incerta, ambigua e in contraddizione ma per Rhodes e Burns la coerenza sta nella «direzione di marcia» ovvero la decisione di mettere alle strette gli avversari dell’America ovunque si trovano, facendo leva sui mezzi pragmaticamente disponibili. Questo approccio ha il vantaggio di rendere Obama imprevedibile per i suoi avversari, che spesso lo sottovalutano, andando incontro a errori fatali.

Bin Laden era sicuro di poter sfuggire alla caccia dei droni, Gheddafi pensava di fare tranquillamente strage degli abitanti di Bengasi e Assad ha continuato a promettere candidamente «riforme» mentre ordinava di sparare ad alzo zero sulle manifestazioni di piazza.

Il risultato è uno scacchiere arabo-musulmano dove gli avversari dell’America che Obama ha ereditato da George W. Bush sono in questo momento caduti o sulla difensiva. Con l’eccezione dell’Iran di Mahmud Ahmadinejad che ha avuto successo nel reprimere le proteste e continua ad inseguire l’atomica. Ma alla Casa Bianca assicurano che l’«indebolimento di Assad investe l’Iran» usando un linguaggio da effetto-domino, seppur non dichiarato.

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