Società

ECONOMIA UE:
LA TEMPESTA
PERFETTA

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L’ultimo vertice del G7 a Boca Raton nei primi di febbraio del 2004 tra i ministri del Tesoro e i governatori delle Banche centrali [assenti Cina e Russia] si è concluso con un sostanziale nulla di fatto: la ricerca di un compromesso e comunque di un’attenuazione del divario crescente tra Europa e Usa e Giappone favorito da politiche aggressive e «di parte» dei cambi non sembra avere avuto successo. Il dollaro rimane debole, lo yen rimane agganciato al dollaro, l’euro rimane troppo forte. Nessuno riesce a imporre alla Cina un apprezzamento congruo della sua moneta. La rigidità [dove dovrebbe esserci flessibilità] o la volatilità [dove dovrebbe esserci rigidità] dei cambi rimane acquisita nelle cose. Tante parole di compiacimento sono state spese però sulle programmazioni economiche dei rispettivi governi.

Ora, se c’è una cosa assolutamente volatile, questa è la programmazione economica dei governi. L’aleatorietà della programmazione economica dei governi è impressionante tanto quanto la supponenza delle dettagliate previsioni che accompagnano ogni loro documento. Buona parte di questa programmazione si basa spesso su previsioni decennali: non c’è alcun economista, oltre che nessuna persona di buon senso, che possa dare credito scientifico concreto a previsioni su un arco temporale di questa durata. Troppe le variabili: una improvvisa recessione, una accelerazione dei consumi, una fiammata inflazionistica, uno scossone nei mercati finanziari da una qualche parte che si riverbera, la caduta del governo che quel piano spingeva e la sostituzione con un altro di impianto politico e economico totalmente differente, una guerra.

A esempio, buona parte dei piani di intervento sulle pensioni ha come orizzonte di data il 2011 [Germania, Italia, Usa]: è più o meno – e dipenderà ancora dall’eventuale spostamento in avanti dell’età di pensionamento – l’anno in cui si ritirerà dal lavoro la generazione dell’immediato secondo dopoguerra, la fascia sociale oggi più rilevante dal punto di vista della produzione attiva ma anche consistente dal punto di vista numerico. C’è davvero qualcuno in grado di dire oggi se questi piani non verranno ritoccati da altri governi?

Quasi sempre, difatti, i documenti di programmazione economica e finanziaria ricorrono all’espressione «a politica corrente», come se fosse possibile congelare i dinamismi della politica e della società, e quindi per un verso sgravandosi di colpe e per l’altro addossando a chi invece succederà nel ricambio la responsabilità dei mutamenti. In verità, ogni governo di «svolta» pensa a se stesso – propone se stesso – come promotore e gestore di un «ciclo»: il doppio mandato, come minimo, i dieci anni appunto.

Questi «scenari» – che vanno benissimo nelle lezioni in aule universitarie – non hanno di fatto nessuna consistenza numerica. Da qui, l’espressione comune ormai quasi abusata, per descrivere le programmazioni economiche come «matematica ubriaca», fuzzy maths, numeri fuori di testa. Se si vuole essere meno brutali, diciamo che sono scritte «al condizionale». Nello stesso tempo, il «valore» di queste programmazioni è forte e cogente, ha risvolti sociali elevati, impatti significativi sulle aspettative della vita sociale collettiva e delle vite quotidiane di ciascun individuo e di ciascuna famiglia. È un valore tutto «politico», anzi squisitamente ideologico. Un valore che viene speso immediatamente.

A esempio, è opinione comune, con rilievi anche statistici, che l’abolizione della imposta di successione sia poco significativa dal punto di vista quantitativo e di poca o incerta significanza dal punto di vista della dinamica economica in grado di innescare. Eppure questa misura viene spesa e sbandierata come esempio di «libertà», di sottrazione all’occhiuto e ingiusto controllo eccessivo dello stato sui beni privati, come «motorino di avviamento» per un ciclo virtuoso, oltre che essere un evidente modo di cercare consenso tra le classi ricche e i ceti medi con redditi e proprietà di fascia alta.

Ancora a esempio, nessun rilievo statistico conforta l’idea che le restituzioni «una tantum» vengano effettivamente spese in consumi e quindi in una spinta alla produzione: spesso, capita invece che esse vengano risparmiate e accumulate, dato che arrivano generalmente in momenti di stasi, se non proprio recessivi. Eppure, ancora, questa misura viene enfatizzata come dimostrazione di un’opera di alleggerimento della pressione fiscale dello stato, oltre che di «equità» del governo.

Per corroborare questo impianto ideologico si ricorre sempre più spesso a iniziative numeriche di «fantasia»: è quella, apprezzata da molti governi, che si definisce «creatività finanziaria»: previsioni di incassi su questo o quel condono che non sono mai rispettate, vendita di immobili dello stato che dovrebbero far entrare in cassa certe cifre che poi non risultano mai, cartolarizzazioni tanto complicate quanto inconsistenti, calcoli su aliquote fiscali che dovrebbero assicurare una certa quantità di entrate che poi non si verificano, e via di questo passo.

Basta poco a un qualunque organo di controllo che faccia sul serio il proprio lavoro – non sempre facile perché è invalsa l’abitudine a secretare spesso la motivazione di questa o quella voce, oltre che a scorporare una quantità di voci sempre maggiore dai bilanci che devono passare a verifica – per scoprire gli inghippi, i giochini. Viene talvolta detto con un certo disprezzo che i responsabili delle programmazioni economiche dei governi sono dei ragionieri o dei «commercialisti»: ma non è casuale questa prevalenza diciamo così professionale: chi meglio dei commercialisti conosce la materia dei bilanci e sa agirvi per manovrarli dall’interno, senza commettere abusi ma sostanzialmente svuotando di qualunque significato quel bilancio stesso?

Apparentemente è sempre tutto in regola. Le coperture di spesa, che sono ormai obbligatorie per gli organi costituzionali di controllo, sono sempre formalmente garantite. Se si vuole trovare un esempio minore ma clamoroso di questo modo di operare lo si può trovare nei bilanci delle società calcistiche: le «plusvalenze» – il calcolo sul valore acquisito da un giocatore comprato [o cresciuto nel vivaio] a un certo parametro e ipoteticamente messo sul mercato a un parametro molto più alto – sono uno straordinario esempio di finanza creativa; oppure, in conto entrate vengono messi, per il bilancio di quest’anno, le entrate prevedibili dalla cessione dei diritti televisivi nel prossimo o addirittura fra due anni. Poi, succede che crolla il mercato dei calciatori e le plusvalenze sono fuffa; poi, succede che il mercato televisivo non può reggere quei costi e le entrate prevedibili sono fuffa. E via di questo passo.

Vi è quindi una assoluta nebulosità dal punto di vista del supporto numerico e una assoluta precisione dal punto di vista della spendibilità politica dei piani: il carattere prevalente della programmazione economica risulta «visionario».

Questo carattere visionario viene corroborato da un ottimismo «imprenditoriale», mutuando per il capo del governo un carattere tutto proiettato al domani, alla scommessa che le cose andranno bene, tipica del capitano d’industria. Ma, con altrettanta forza, da un richiamo al patriottismo e. sempre più spesso, alla religione, mutuando le figure del padre fondatore e del pastore di anime. Fare le pulci ai numeri significa quindi essere jettatori o prevenuti manipolatori, denigrare l’azienda e il capitalismo per principio e l’azienda-nazione [essere dei «traditori»] o parlar male della patria e della bandiera quando non addirittura di dio.

Cose spregevoli insomma. L’assoluta certezza, la messa in conteggio oggi, che il tasso di crescita del 2007 sarà del 3,5 per attestarsi poi nel 2009 al 3,1 è – come può capire chiunque – una cosa assolutamente fuori di testa: e, difatti, anno dopo anno le previsioni vengono poi ritoccate, aggiustate, ricalibrate rispetto i dati reali. Ma, intanto, serve oggi per far passare una serie di misure governative e per proseguire nello spostare in avanti i problemi – di cassa e di bilancio – che continuano a affastellarsi.

Insomma, che dio ce la mandi buona. Questa visionarietà è stato sostanzialmente il carattere dei governi di «destra» da Reagan e dalla Thatcher in poi, i cui fondamenti «culturali» sono il taglio delle tasse per le fasce più ricche, nel convincimento che questa sia la strada per la ripresa degli investimenti e dei consumi, il taglio del settore pubblico, dei servizi sociali e della spesa di assistenza, verso processi di privatizzazione sempre più ampi, la gestione di manica larga del disavanzo, nel convincimento di poterlo sempre «controllare».

Il tono di questi governi è quello del «rigore» verso lo spreco del denaro pubblico – sostanzialmente addebitato ai privilegi che i governi democratici avrebbero sempre assicurato in termini di assistenzialismo -, ma con accentuazioni di ottimismo, di fede come se quando le cose non andassero bene fosse sempre colpa tua, per debolezza o pervicacia. E anche per diabolicità. I ministri del Tesoro incarnano e fungono da braccio armato di queste politiche. Non è ammesso il dubbio: la rapidità con cui Bush junior ha sostituito Paul O’Neill [che pure non brillava per autonomia] con John Snow ne fa esempio.

A questa impostazione ha sempre fatto da supporto – e da intervento molto più diretto e immediato nelle cose – una politica di controllo del denaro da parte delle Banche centrali, quella che è stata definita in teoria economica, da Milton Friedman in poi, il «monetarismo». Riduzioni o innalzamento dei tassi di interesse, intervento sui cambi, governo della circolazione, sono state le «armi» con cui le Banche centrali hanno gestito – con effetti praticamente immediati – i processi inflattivi o deflattivi, le iniezioni ricostituenti per la ripresa quando decelerava o l’instaurazione di pause quando era troppo forte. Per anni, gli spostamenti, in su o in giù, di uno 0,5 per cento dei tassi sono stati dannazione e sollievo del mondo economico e finanziario. Il loro potere era praticamente illimitato.

Le Banche centrali sono poi strane istituzioni, che non sono propriamente parte del governo né esterne a esso, guidate e strutturate da tecnici, con un altissimo senso di appartenenza, di «casta», con privilegi assolutamente speciali, i loro miti interni, la loro «storia», che insistono sull’atteggiamento non-politico delle loro decisioni – a dispetto dell’atteggiamento invece tutto «politico» del Tesoro -, anche quando è evidente a tutti che le cose non stanno propriamente così. Ma questa condizione – di potenza reale smisurata ma anche defilata nell’esposizione pubblica – li ha probabilmente «inorgogliti» troppo.

Non sarebbe assolutamente plausibile, mettiamo, per un Bush che parla di ripresa economica evidente sapere che intanto Alan Greenspan, capo della Fed americana, avesse deciso di alzare i tassi, o che, mentre le spese militari inghiottono il dieci per cento in più del bilancio previsto, Greenspan additasse la crescita del disavanzo pubblico e il pericolo combinato di un dollaro debole e d’un disavanzo commerciale spaventoso. Le politiche delle Banche centrali vanno definitivamente messe sotto controllo [non c’è mai stato in Usa un tasso di interesse così basso], senza più margini di autonomia. E senza più margini di temperanza. Non è la fine del monetarismo. È la fine dell’incarnazione del monetarismo nelle figure di governatori delle Banche centrali.

Il controllo della circolazione della moneta può essere combinato ottimalmente e ottimisticamente, per la destra, con la politica dei tagli fiscali [e questa con lo sviluppo e la crescita]. Ma è qui e non altrove che sta il comando della cosa.

Se si vuole trovare un filo di spiegazione allo scontro in Italia attorno la figura di Antonio Fazio, io credo stia tutto qui. I suoi poteri sono stati notevolmente estesi e discrezionali, e oggi appaiono inammissibili. Vanno limati, limitati e ricondotti a ragione. Non può esservi un altro centro «politico» della decisione sull’economia. Questo attrito, questo scontro non è per nulla «provinciale»: il rigore sui bilanci è un carattere precipuo della Commissione europea, almeno nei suoi primi fondamenti, e il braccio armato a cui questo compito è delegato è quello della Banca centrale europea.

Controllare i processi inflattivi, controllare l’espansione del credito, intervenire sui cambi, controllare la circolazione di denaro, controllare la collocazione del risparmio, controllare la politica comune degli istituti di credito e le loro dinamiche di fusione, è un potere reale enorme. Svolto peraltro in nome di una «idea politica» superiore: il bene comune dell’Europa. Questa politica di «rigore» è stata il tratto caratteristico dei governi europei democratici: in Italia, Amato prima, Prodi poi ci hanno incitato ai sacrifici per entrare in Europa, al rispetto dei numeri che erano previsti, alla riduzione del disavanzo pubblico e, in generale, della «domanda».

Rispetto alla aggressiva politica «offertista» della destra conservatrice e rivoluzionaria – in nome della qualità dell’impresa come motore dell’economia – ci si limita ai «sani» bilanci, alla sanità finanziaria. Accade così che alla destra rimangano in mano due buone carte: quella di mostrarsi come un campione di libertà nei confronti dell’eccessivo potere centralistico dei governatori delle Banche centrali [e dello stato o del «sovra-stato], e quello di potersi muovere verso il disavanzo pubblico [«siamo diventati tutti keynesiani»] come un possibile volano dell’economia. Il combinato micidiale è con la prosecuzione dei tagli fiscali per i ricchi e la riduzione della spesa pubblica sociale. Difendere Fazio non è probabilmente la migliore delle politiche possibili.

In un articolo sul «Sole 24 ore» dell’8 febbraio 2004, Giuliano Amato avanza tutti i suoi dubbi sulla «buona qualità» del Patto europeo di stabilità finanziaria: il rigore non può essere neutrale: non può essere indifferente la composizione e la qualità delle entrate e delle spese, dove si taglia, insomma, e dove si investe. Ma, facendo un bilancio sommario di quel Patto, rileva che «l’idea di sviluppo è rimasta una sorta di figlia di un dio minore rispetto alla stabilità finanziaria». Difatti, mentre il rigore finanziario è centralizzato, è europeo, è politicamente costituente dell’Europa, gli obiettivi di sviluppo sono state affidate alle politiche nazionali.

L’Europa, si potrebbe dire, sembra nata per «tagliare le spese». Risultato: stiamo entrando o siamo già entrati in una fase recessiva: i prezzi salgono, i consumi scendono, gli investimenti ristagnano, la produzione annaspa, le esportazioni si assottigliano, i risparmi crollano o si riducono e si volatilizzano. Chiunque avesse mai coltivato l’idea che la ripresa americana – legata ai massicci investimenti militari – potesse fare da locomotiva anche per l’Europa si sta rendendo conto che le cose non vanno in questo modo: qui arrivano solo briciole, mentre sicuramente si continua a pagare e coprire quella ripresa. È la «tempesta perfetta»: più turbolenze convergono in un solo punto: l’Europa [con conseguenze più o meno palpabili a seconda della solidità di ciascun paese].

In Italia, almeno sinora, il centro-sinistra sembra limitarsi a indicare il deperimento economico del paese, addebitandolo alla mancanza di criterio della destra, e aspettare la rendita di questa posizione. Successe persino a Churchill, che aveva guidato gli inglesi in una difficile guerra – di lacrime e sangue – contro i tedeschi, di cadere, appena vittorioso, perché la disoccupazione cresceva. E così, si parva licet, a Bush senior, dopo la prima guerra del Golfo, ecc ecc. E tutta la campagna dei democratici per le prossime elezioni negli Usa sembra impostata proprio così. Figurarsi se non può capitare a Berlusconi.

D’altronde la sensazione sociale che le cose non funzionino granché, a cominciare dal valore decrescente dell’euro, aumenta. Epperò, qui le cose si ingarbugliano: perché l’euro «forte» viene difeso dal centro-sinistra come un proprio risultato positivo, e probabilmente è vero che in una recessione galoppante una lira debole avrebbe comportato conseguenze inflattive e peggiori; ma è pure vero che continuare a spendere questa ipotesi e il valore politico dell’euro non è sufficiente quando ci compri più o meno una zucchina. Sicché, si imputa alla destra… cosa? La politica di tagli alle spese sociali – e va bene -, ma poi? Il ristagno dei salari – e va bene -, ma poi? Qual è la politica di sviluppo del centro-sinistra? Qual è la sua idea di rilancio economico? Qual è la sua proposta di una politica fiscale più equa? Qual è la sua ipotesi sui cambi e sui tassi? Quale sulla circolazione di denaro? Quale su una possibile gestione del disavanzo? E qui si annaspa.

Vi sono dei vincoli economici e politici «ereditati» – il deficit pubblico, e il problema delle pensioni, l’Europa – che sembrano fungere da corridoio stretto per qualunque governo: le differenze a volte sono minime, ancorché certo non indifferenti, nella pratica amministrativa. La destra mostra adesso più aggressività e più intraprendenza rispetto quei vincoli, o quanto meno cerca dei margini di manovra, il centro-sinistra sembra muoversi di rincalzo, di sponda. Io credo che occorrerebbe maggiore coraggio. E anche maggiore «creatività», maggiore «visionarietà».

Forse, entrambe ripongono nei movimenti sociali di quest’ultimo decennio, se si riuscisse a intercettare e elaborare in forma di «piano economico» la richiesta di equità, giustizia, solidarietà, partecipazione democratica globale, pace, progresso, cooperazione, autonomia, autogoverno, che nuovi soggetti sociali e una nuova composizione sociale hanno espresso.

A una destra che ritaglia i propri piani economici e fiscali sulle classi più ricche e sui ceti medi, convinta della ricaduta positiva per il bene comune della crescita economica, va opposta non tanto e non solo una difesa dei ceti più deboli – che è sacrosanta ma non sufficiente -, ma la «visione» di un nuovo mondo, che è fatta di buone pratiche amministrative, certo, ma anche di un entusiasmo sociale, di una propulsione, di un sapere condiviso, di obiettivi comuni. È questa la «ricchezza sociale delle nazioni». Solo così possiamo uscire dalla tempesta perfetta.

tratto da Rekombinant, no copyright.