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Economia: qui non c’e’ un titolo a effetto, perche’ tutto e’ INCERTO

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(WSI) – Prima il dramma della crisi, poi gli entusiasmi per la ripresa, le paure ridicole per le bolle e per l’inflazione, la febbrile ricerca di vie legislative per raddrizzare il mondo una volta per tutte, il timore per il crollo dell’Europa proprio mentre l’Europa cresceva più di tutti. Poi, all’improvviso, lo spegnersi veloce di un motore dopo l’altro, il silenzio della politica, l’affievolirsi della voce delle banche centrali, l’ibernazione delle borse e delle materie prime.

In fuga da un anno e mezzo dalla crisi ci troviamo ora in una notte stellata fermi in mezzo alla campagna. Non passa nessuno e fortunatamente non piove e non fa freddo. Non abbiamo bucato una gomma, secondo la celebre metafora di El Erian, che sostiene che non abbiamo più quella di scorta. Non ci sono stati shock esogeni. Le gomme sono in ordine e il motore è a posto. E però si è spento.

La strada non è in pendenza e per il momento non c’è vento, quindi non stiamo scivolando indietro. Se ci atteniamo ai fatti senza romanzarli siamo probabilmente a crescita vicina a zero in America e, udite udite, anche in Cina (crescita annualizzata, non quella anno su anno). L’Europa va ancora avanti per inerzia, ma non ha una forza propulsiva propria perché come al solito vive di esportazioni e se gli altri si fermano presto toccherà anche a lei.

Se vogliamo romanzare possiamo naturalmente dire che è arrivato Double Dip, oppure, per strafare alla Rosenberg, che non ci siamo mai mossi dalla depressione. Dalla malattia giapponese non è ancora guarito il Giappone, figuriamoci il resto del mondo, che l’ha contratta solo tre anni fa.

In alternativa possiamo romanzare in rosa, come fanno ancora molte case e come fa la Fed, che tuttora mantiene in vita la finzione di una crescita del 3 per cento per quest’anno e per il prossimo, con un calo lento ma costante della disoccupazione.

In realtà chi ha previsto meglio, nell’ultimo anno e mezzo, è stato uno come Jan Hatzius di Goldman Sachs. Senza mai gridare, senza librarsi in volo in cieli popolati da categorie metafisiche tipo gli anni Trenta, la fine del capitalismo, la teoria delle bolle o anche solo la New Normal, Hatzius è sempre stato in laboratorio a fare i calcoli bottom up di tutti i pezzi che compongono l’economia americana, li ha assemblati e ha detto quello che veniva fuori (ovvero un due e mezzo annualizzato di crescita americana per la prima metà del 2010 e un uno e mezzo con rischi verso il basso nella seconda metà). Non ha mai cambiato i suoi numeri e quando sono usciti dati in contrasto con i suoi calcoli ha detto che erano sbagliati i dati (che infatti sono stati puntualmente rivisti e riportati alle sue previsioni).

Nei prossimi giorni e nelle prossime settimane ci sarà la gara, che in realtà è già partita, a chi arriva primo a fare i titoloni su double dip, recessione, Eurolandia di nuovo in crisi, Cina in preda alle convulsioni da scoppio della bolla. Tutte categorie piuttosto vaghe e quindi non falsificabili.

Se vogliamo invece attenerci ai fatti e teorizzare il meno possibile, quello che vediamo non è più un soft patch, un incidente di percorso di due tre mesi come sempre capita nelle riprese cicliche, ma comincia ad avere la dignità di una growth recession. La recessione di crescita non è un ossimoro, ma una descrizione efficace di un Pil che nel suo complesso continua a crescere, ma in cui produzione industriale e occupazione ristagnano o scendono. Non è un fatto così raro.

Al momento, in America, ha ripreso a contrarsi l’immobiliare nel suo complesso, mentre le imprese industriali, quelle che avevano trainato la ripresa, stanno smettendo di riaccumulare scorte, di assumere e, sorpresa,
anche di comprare nuovi macchinari. I consumi, dal canto loro, rallentano. Non è una situazione di panico come quella dell’ottobre 2008, quando tutte le imprese smisero di produrre e licenziarono, ma come allora colpisce la sincronicità.

All’improvviso, sistemati i bisogni più urgenti di personale e di macchinari nuovi, tutti si sono messi alla finestra a guardare e aspettare. Da qui in avanti, purtroppo, il discorso si politicizza. Dire che le 10mila pagine di nuove leggi su sanità, banche, energia (che diventeranno presto un multiplo quando verranno varati i regolamenti di attuazione) paralizzano gli spiriti animali suona certamente repubblicano, ma qualcosa di vero ci può essere. Lo stesso per le tasse in arrivo, su cui c’è totale confusione e incertezza.

I politici, infatti, dopo avere legiferato disordinatamente, hanno rovesciato il tavolo e ora litigano senza costrutto in un clima molto acceso di confronto elettorale. Un uomo solitamente molto pacato come Ethan Harris di Bank of America sostiene spazientito che se ci sarà un double dip lo si dovrà alla politica. Sul piano fiscale, dice Harris, si sta facendo esattamente il contrario di quello che si dovrebbe fare. Invece di continuare a spendere nel breve per consolidare la ripresa e di tracciare le linee per un risanamento di lungo periodo con riforme strutturali (su sanità e pensioni), ci si è messi a correre dietro all’opinione pubblica preoccupata per il disavanzo e a contare i centesimi sulle spese di breve. In compenso, per non irritare gli elettori, ci si guarda bene dall’avviare le riforme più impegnative.

Su un altro pianeta, in Cina, l’arresto dell’economia non è spontaneo, bensì programmato a tavolino. L’abbiamo definita una fase di manutenzione, dedicata allo sgonfiamento della bolla immobiliare privata a Shanghai e Pechino e all’eliminazione degli impianti meno produttivi nell’industria pesante.

A differenza dell’Occidente, sempre reattivo perché ha bisogno di costruire lentamente il consenso prima di agire, la Cina è molto proattiva. Le bolle, ad esempio, le fa scoppiare dall’alto prima che raggiungano proporzioni drammatiche. Lo stesso vale per la capacità produttiva in eccesso. E’ meglio ristrutturare a freddo e con calma piuttosto che aspettare una recessione e ritrovarsi con imprese dissestate che non possono pagare le banche e devono licenziare.

La Cina vede oggi un quadro globale diverso da quello dell’ottobre 2008. Allora si trattò per Pechino di farsi carico della ripartenza del mondo intero, oggi si pensa invece che America ed Europa siano in grado di cavarsela da sole (o debbano comunque imparare a farlo) e ci si dedica alla pulizia in casa propria.

La Cina fa sempre le cose in grande e non è certo l’inflazione al consumo a preoccuparla, come invece sostengono spesso gli osservatori occidentali. L’unica componente che sta facendo salire i prezzi (del 3 per cento, non del 30) è la carne di maiale e non si ferma la seconda economia del mondo per fare scendere la carne di maiale.

Quanto all’inflazione salariale (peraltro concentrata nelle imprese di proprietà straniera), anche questa è voluta dall’alto. Oggi i tre quarti dell’apparato industriale sono addensati sulla costa orientale e meridionale. E’ arrivato il momento, secondo la dirigenza cinese, di trasferire le produzioni a basso valore aggiunto non tanto in Vietnam o in Bangladesh, quanto nelle regioni interne, dove le retribuzioni sono la metà o un terzo. Sulla costa dovranno invece svilupparsi i comparti ad alto valore aggiunto e i servizi.

La Cina concluderà la sua fase di manutenzione a fine anno o all’inizio del 2011. Quanto all’America, molto dipenderà, nell’attuale fase di vacanza della politica, dalle scelte della Fed.

Per certi aspetti in questo momento vale il tanto peggio tanto meglio. Un flusso di dati tiepidi, come quelli che avevamo visto tra giugno e luglio, avrebbe prolungato di molti mesi il dibattito interno e l’adozione di misure monetarie energiche. Con dati di segno negativo, come quelli degli ultimi giorni, Bernanke potrà portare sulle sue posizioni i centristi del Fomc e isolare i falchi, peraltro divisi tra loro.

Già, ma quali sono le posizioni di Bernanke? Sono mesi che il governatore tace, ma è attesa diffusa che venerdì sera a Jackson Hole verranno presentate, sia pure in un’educata e non aggressiva veste accademica, le linee guida della politica monetaria dei prossimi mesi. La ripresa del quantitative easing è scontata, ma sarà interessante vedere se sotto forma di piccole dosi periodiche, come fa la Bank of England, o come terapia d’urto che ribalti le aspettative d’inflazione.

Un tema delicato che sta sicuramente a cuore a Bernanke è l’idea di adottare un obiettivo prefissato d’inflazione. Annunciare un target del 2 per cento (quando oggi siamo all’uno) creerebbe nei mercati l’attesa di politiche ancora più espansive. Fino ad oggi la Fed ha esitato a dotarsi di questo strumento, non tanto per tenersi le mani libere quanto per evitare che il Congresso le imponesse di adottare anche un target per la disoccupazione. Ma le cose cambiano.

Bernanke potrebbe anche prospettare, con la prudenza che non gli fa difetto, la ripresa di attività di finanziamento quasi diretto ai consumi e alle piccole imprese da parte della Fed. Se le banche non si muovono, potrebbe dire, ci muoveremo noi.

Visto dai mercati, è probabile che l’annuncio di un approccio più aggressivo favorisca questa volta più l’azionario dell’obbligazionario. Il 10 agosto, quando la Fed ha annunciato l’intenzione di reinvestire in Treasuries i titoli in scadenza, il mercato era lungo di equity, mentre oggi è scarico.

Un atteggiamento espansivo farebbe scendere il dollaro e salire l’euro per due motivi. Il primo è la naturale tendenza a punire chi reflaziona, il secondo è che un’azione di sostegno alla crescita americana allontanerebbe la paura (per il momento controllata) di un riaprirsi della crisi europea.

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*Questo documento e’ stato preparato da Alessandro Fugnoli, strategist Kairos Partners SGR. ed e’ rivolto esclusivamente ad investitori istituzionali ovvero ad operatori qualificati, così come definiti nell’art. 31 del Regolamento Consob n° 11522 del 1° luglio 1998 e successive modifiche ed integrazioni. Le analisi qui pubblicate non implicano responsabilita’ alcuna per Wall Street Italia, che notoriamente non svolge alcuna attivita’ di trading e pubblica tali indicazioni a puro scopo informativo. Si prega di leggere, a questo proposito, il disclaimer ufficiale di WSI.