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Economia mondiale, e’ KO tecnico

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(WSI) – Agli inizi di maggio l’indice Ftse Mib della Borsa di Milano era prossimo a quota 23 mila, ora è di poco al di sopra di quota 19 mila. Peggio di Milano in Europa hanno fatto solo Madrid e Atene, ma in nessuna Borsa al mondo oggi prevale il sorriso. Da due settimane gli indici di Wall Street cadono quasi senza interruzione, una sequenza osservata solo nei periodi più acuti di questa crisi; negli ultimi cinque giorni di contrattazione il valore delle azioni quotate a New York si è ridotto del quattro e mezzo per cento, il che si potrebbe anche definire un crollo.

I vertici dei G8 e G20, tenutisi lo scorso fine settimana a Montréal, con il loro ottimismo artificiale e con il lago artificiale – allestito dai canadesi per allietare gli ospiti al modico prezzo di un miliardo di dollari – non solo non hanno iniettato fiducia ma hanno contribuito al generale pessimismo perché si è vista chiaramente la spaccatura tra americani ed europei sotto lo sguardo impassibile dei cinesi.

Perché il cattivo umore, la greve atmosfera di scontentezza che traspare dai dati e dai commenti di operatori e analisti finanziari? Non è forse vero che la ripresa è cominciata, che le cose stanno andando meglio, come ripetono un po’ tutti da più di un anno? Per comprendere le ragioni di un simile brusco cambiamento, si può far riferimento, in questo periodo di campionati mondiali, a una metafora calcistica: si prenda il caso di un grandissimo campione, un asso del pallone che ha fatto guadagnare punti, coppe e scudetti alla sua squadra e che, un brutto giorno, si fa seriamente male. La società per la quale gioca consulta i migliori specialisti, lo sottopone a operazioni complicate e a cure molto costose senza badare a spese e anzi indebitandosi seriamente purché il suo beniamino torni in campo e si rimetta a segnare.

Usciti dalla sala operatoria, medici e dirigenti di questa società calcistica fanno dichiarazioni ottimistiche. Tutti dicono che il campione si riprenderà presto, anzi che si sta già riprendendo, tra poco tornerà in campo e i tifosi si apprestano a festeggiare il ritorno del loro beniamino. Ed ecco che il campione esce dall’ospedale. Saluta e sorride, ma poco alla volta la triste verità trapela: invece di correre, il campione riesce a stento a stare in piedi e a correre senza ossigeno proprio non ce la fa. La strada del recupero improvvisamente si prospetta più lunga, più dura, più incerta. E davanti alla società per quale gioca si delinea la prospettiva di un campionato meno brillante e di un bilancio meno solido. I tifosi sono costernati e gli azionisti pensano che si potrebbe anche cambiare, o mettere in minoranza, il presidente.

In luogo di campione sportivo si legga economia americana, al posto di società sportiva si legga Stati Uniti, invece di un campionato di calcio si immagini il «campionato mondiale» della crescita, alle medicine e all’ossigeno si sostituiscano gli incentivi. «Tifosi» sono tutti coloro che investono nelle Borse e «azionisti» sono i vari Paesi del mondo che accettano la supremazia economica e finanziaria degli Stati Uniti e tengono in dollari gran parte delle loro riserve.

Una serie di dati recentissimi sulla congiuntura americana, e in particolare sull’occupazione, mostra che la non eccezionale crescita di quel Paese è strettamente legata agli incentivi che il governo americano distribuisce generosamente indebitandosi e che ha utilizzato prima di tutto per salvare le grandi banche (sarebbe stato difficile fare diversamente).

Senza incentivi l’economia perderebbe colpi e ogni speranza di recuperare almeno una parte degli otto milioni di disoccupati creati dalla crisi prima delle elezioni parziali americane del prossimo ottobre, nelle quali la delusione degli elettori potrebbe togliere al partito del presidente Obama il controllo di una o di entrambe le Camere.

In realtà, il campione non sembra aver più le gambe per correre come una volta, il che significa, fuor di metafora, che nell’economia americana la domanda globale è priva della grande spinta del recente passato: il consumo delle famiglie, sostenuto per vent’anni da un indebitamento crescente, è fermo sotto il peso dei debiti da ripagare e risulta inoltre frenato dalla disoccupazione che toglie potere d’acquisto a milioni di famiglie.

Un circolo vizioso di difficoltà oggettive e di pessimismo serpeggiante rende difficile all’America continuare a spendere e a indebitarsi. Gli europei, dal canto loro, hanno di fatto rinunciato a far crescere la loro economia con il debito e appaiono rassegnati alla non crescita oppure a una crescita molto bassa: le manovre dei Paesi dell’euro, concordate sotto la dura pressione dei tedeschi, rallentano ancora lo scarsissimo slancio dell’economia anche se i governi spesso si illudono di riuscire a tagliare la spesa pubblica senza rallentare la domanda privata.

Il resto del mondo, cinesi in testa, comincia a interrogarsi sull’opportunità di continuare a utilizzare il dollaro come principale moneta di riserva. I recenti, giganteschi accordi commerciali conclusi da Pechino con alcuni Paesi sudamericani prevedono scambi non più regolati in dollari mentre l’uso internazionale dello yuan comincia a diffondersi tra i Paesi asiatici fornitori della Cina. Anche per questo sta diventando sempre più difficile salvare i bilanci pubblici e contemporaneamente rilanciare, o anche solo conservare, l’occupazione; l’ora di una difficile scelta sulla priorità tra occupazione e risparmio sembra avvicinarsi rapidamente.

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