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Economia: diventeremo obsoleti come i cavalli

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ROMA (WSI) – S’intitola Inequality for All il film-documentario che in questi giorni porta nelle sale cinematografiche d’America le lezioni universitarie in cui Robert Reich (docente di Berkeley ed ex ministro del Lavoro di Bill Clinton) denuncia gli effetti sociali dirompenti dell’accentuazione delle diseguaglianze che si è verificata negli Usa: un fossato tra ricchi e resto della società di una profondità mai vista dagli anni Venti del Novecento.

E, mentre Barack Obama promette di dedicare ciò che resta della sua presidenza alla creazione di posti di lavoro e a ridare fiato a un ceto medio che sta scomparendo, Sidney Blumenthal spiega che i democratici imposteranno la campagna presidenziale del 2016 proprio sulle diseguaglianze.

Secondo il consigliere della Casa Bianca negli anni di Bill Clinton, che ora lavora al fianco di Hillary, la probabile candidata di quelle elezioni, il fronte progressista punterà proprio sulla battaglia contro le diseguaglianze in un’America sempre più divisa tra un ceto benestante e una società di massa a reddito medio-basso – o addirittura alle soglie dell’indigenza – senza più nulla in mezzo.

Negli Stati Uniti non è solo la sinistra a mettere sotto i riflettori la questione della crescente divaricazione tra ricchi e poveri: nelle librerie è appena arrivato Average is Over , un saggio di Tyler Cowen nel quale l’economista della George Mason University – geniale, provocatorio, di certo non progressista – disegna scenari futuri allarmanti nei quali i ceti intermedi, come suggerisce il titolo, scompaiono.

Più precisamente: si allarga sempre più il divario tra il 10-15 per cento della popolazione che, svolgendo professioni non intaccate dall’automazione o avendo imparato e dominare le macchine e a migliorarne il rendimento, vivrà in condizioni di grande benessere e tutti gli altri. Gli altri sono quelli che troveranno impieghi negli interstizi della società robotizzata o che svolgeranno lavori, come quelli degli infermieri, che le macchine non riescono a sostituire ma non richiedono una grande qualificazione.

Una grande massa di cittadini dovrà imparare a vivere in modo più austero. Un destino al quale, secondo Cowen, è inutile ribellarsi e col quale anche i meno fortunati impareranno a convivere, scoprendo che la frugalità ha anche aspetti positivi. Sarà una società diversa, sempre più meritocratica, anzi «ipermeritocratica», mentre la memoria del mezzo secolo di rapida crescita, welfare generoso e prosperità, in Occidente dopo la Seconda guerra mondiale, si appannerà sempre più. Fino a quando quell’epoca sarà catalogata come una sorta di incidente della storia, felice ma insostenibile e quindi irripetibile.

Uno scenario cupo, che per fortuna altri analisti non condividono (non fino in fondo, almeno). Ma è un fatto che improvvisamente le voci un tempo isolate di chi da anni prevede una crescente polarizzazione dei redditi e una sostanziale sparizione del ceto medio, sono diventate mainstream in America. Com’è maturato questo cambiamento di prospettiva? E che tipo di risposte politiche possono essere elaborate, ammesso che in un campo come questo i governi abbiano significativi margini di manovra?

Fino a qualche tempo fa, l’opinione prevalente era che le difficoltà nelle quali si dibattono quasi tutti i Paesi industrializzati fossero legate, oltre che alla crisi finanziaria planetaria del 2008, a una globalizzazione che ha creato di certo nuove opportunità, ma ha anche provocato un trasferimento di ricchezza senza precedenti dall’Occidente ai Paesi emergenti, soprattutto quelli dell’Asia.

La tecnologia non aveva un ruolo centrale in queste analisi: la nuova economia digitale veniva vista come un fattore che da un lato crea problemi sociali quando i robot sostituiscono gli uomini, ma dall’altro aumenta l’efficienza del sistema, producendo nuova ricchezza e, quindi, maggiori occasioni di lavoro. In fondo, ragionavano i «tecno-ottimisti», nel 1790 il 93 per cento degli americani viveva di agricoltura. Duecento anni dopo, nel 1990, la quota dei contadini era scesa al 2 per cento, eppure gli Stati Uniti erano un Paese di incredibile prosperità, che aveva raggiunto il pieno impiego.

Meglio, quindi, non fasciarsi la testa: potremmo essere entrati in una nuova era di «distruzione creativa». Come quando il motore a vapore mandò in pensione il cavallo come mezzo di trasporto e l’economia che gli era cresciuta intorno. Ma il cavallo di ferro – la locomotiva con le sue reti ferroviarie e le fabbriche costruite vicino ai binari – ha alimentato una nuova e ben più vasta economia: lavori qualificati o umili ma comunque numerosi e pagati, in media, assai più di quelli dei braccianti agricoli.

Pian piano ci si è, però, resi conto che nell’epoca del rapido sviluppo delle tecnologie digitali, nei Paesi industrializzati il motore della creazione di posti di lavoro si è inceppato. È un dibattito che abbiamo raccontato nei mesi scorsi anche sulla «Lettura»: dalle analisi di Robert Gordon della Northwestern University (le tecnologie digitali, leggere e virtuali, non creano tanto lavoro quanto le rivoluzioni precedenti – vapore, elettricità, motore a scoppio – che hanno fatto nascere nuovi universi industriali) a Race Against the Machine , l’ormai celebre saggio di Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee del Mit di Boston.

Negli ultimi mesi però sono emerse nuove analisi più focalizzate sugli effetti che la rivoluzione digitale sta avendo sulla distribuzione del reddito. Noah Smith, giovane economista della Michigan University e attivissimo blogger, ha concentrato la sua attenzione sul cambiamento della distribuzione del reddito tra capitale e lavoro in un saggio pubblicato da «The Atlantic»: «Durante quasi tutta la storia moderna i due terzi della ricchezza prodotta è servita per pagare i salari mentre il terzo rimanente è andato in dividendi, affitti e altri redditi da capitale».

Ma dal 2000 – quindi ben prima della crisi prodotta dal crollo di Wall Street del 2008 – le cose sono cambiate: «La quota del lavoro ha cominciato a calare stabilmente fino ad arrivare al 60 per cento, mentre i redditi da capitale sono cresciuti».

La causa, secondo Smith, va ricercata nella tecnologia: «In passato il progresso tecnico ha sempre aumentato le capacità dell’essere umano: un operaio con una motosega è più produttivo di uno che lavora con una sega a mano. Ma quell’era è passata. La nuova rivoluzione, quella dei computer e delle tecnologie digitali, riguarda le funzioni cognitive, non l’estensione delle capacità fisiche. E una volta che le capacità cognitive dell’uomo sono sostituite da una macchina, diventiamo obsoleti come i cavalli» nell’era del motore a vapore.

Ancora più interessante, forse, l’analisi di un altro docente del Mit di Boston, David Autor, dai cui studi emerge che i computer, capaci di sostituire anche lavoratori con mansioni piuttosto complesse, ma con una elevata componente di routine , lasciano all’uomo i mestieri non routinari che sono essenzialmente di due tipi: «In alto ci sono i lavori astratti, quelli che richiedono intuito, creatività, capacità di persuadere e risolvere problemi. Sono i lavori di manager, scienziati, medici, ingegneri, designer.

Dall’altro lato troviamo i lavori manuali che richiedono interazioni, capacità di adattamento e osservazione, saper riconoscere un linguaggio: preparare un pasto, guidare un camion in città, pulire una stanza d’albergo. Questi lavori non vengono sostituiti dai computer, ma non richiedendo grosse competenze professionali, in genere sono pagati poco. Meno di molti mestieri spariti con l’automazione.

Un processo tutt’altro che esaurito con i robot al lavoro nelle fabbriche di tutto il mondo che ormai si contano in milioni. Un recente e dettagliatissimo studio della Oxford University che ha esaminato in profondità, uno per uno, 72 settori produttivi, giunge alla conclusione che quasi la metà dei lavori ancora svolti dall’uomo (il 47 per cento, per la precisione) verrà prima o poi sostituito dalle macchine.

Più ottimista di Gordon, che teme un futuro di disoccupazione di massa, Autor pensa che il mercato del lavoro si allargherà comunque a nuove attività che oggi non immaginiamo: la computerizzazione della società potrebbe anche non ridurre il numero complessivo dei posti di lavoro, ma ne degraderà la qualità (e quindi il reddito). Le sue conclusioni, alla fine, non sono molto diverse da quelle di Cowen: crescente polarizzazione dei salari, divaricazione abissale tra le classi sociali.

Come evitare questa trappola? Dovrebbe essere questa la sfida alla quale i politici dedicano la maggiore attenzione. Invece, scrive sul «New York Times», Stephen King (il capo economista del gigante bancario Hsbc, non lo scrittore, anche se le sue analisi, ironizza qualche suo collega, sono da romanzi horror), «i governi si limitano a pregare perché arrivi una forte ripresa: preferiscono optare per l’illusione perché la realtà è troppo cupa».

Per adesso a «sporcarsi le mani» col tentativo di individuare soluzioni sono soprattutto gli economisti. Con risultati non entusiasmanti. Quelli di idee progressiste non credono che un aumento delle disparità sia alla lunga sostenibile e temono per la tenuta delle democrazie, a differenza di Cowen che prevede un adattamento all’ineluttabile in un mondo che non si ribellerà e, anzi, sarà sempre più conservatore (come conservatori sono, già oggi, gli Stati Usa più poveri, non i più ricchi).

Noah Smith vuole stimolare la moltiplicazione delle piccole aziende per rendere il maggior numero possibile di lavoratori imprenditori di se stessi e immagina un meccanismo di compensazione del trasferimento di ricchezza dalla manodopera alle imprese: un portafoglio di azioni di società quotate da consegnare a ogni cittadino al compimento del diciottesimo anno. Una sorta di polizza assicurativa per proteggere l’individuo dall’impatto dei robot sul mercato del lavoro.

Autor pensa, invece, ad uno sforzo per estendere il raggio dei mestieri che richiedono intuito e discrete capacità professionali – dall’infermiera capace anche di aggiornare la terapia di un diabetico agli idraulici e gli elettricisti capaci di ridisegnare una rete – in modo da ricreare uno spazio intermedio per un ceto di quelli che chiama i «nuovi artigiani».

Altri, come il tecnologo-visionario Jaron Lanier, pensano a una redistribuzione della ricchezza prodotta dalla civiltà di Big Data: i grandi gruppi dell’economia digitale, che mettono da parte ricchezze immense grazie alla loro capacità di accumulare e analizzare un volume enorme di informazioni, dovrebbero effettuare micropagamenti con meccanismi automatici a tutti noi quando utilizzano i dati che immettiamo in Rete.

Tutte idee intelligenti, che cercano di immaginare un riequilibrio basato, per quanto possibile, su meccanismi di mercato, ma che difficilmente possono essere risolutive. La sfida della politica è proprio questa: in fondo, quando mezzo secolo fa si immaginava un mondo nel quale avremmo lavorato poche ore alla settimana, si dava per scontato che le macchine avrebbero sostituito l’uomo, ma si pensava anche che dei frutti della loro maggior produttività avrebbero beneficiato più o meno tutti.

All’inizio del XXI secolo il problema è ancora quello: favorire una redistribuzione almeno parziale senza ricadere nel dirigismo e negli eccessi di statalismo le cui ustioni sono ben visibili sulla pelle delle società occidentali, specie quella italiana.

Il contenuto di questo articolo, pubblicato da Il Corriere della Sera – che ringraziamo – esprime il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.

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