Società

ECONOMIA: ABITUATEVI ALLA STAGFLAZIONE LIGHT

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*Questo documento e’ stato preparato da Alessandro Fugnoli, strategist di Abaxbank ed ed e’ rivolto esclusivamente ad investitori istituzionali ovvero ad operatori e clientela professionale ai sensi dell’allegato n.3 al reg. n.16190 della Consob. Le analisi qui pubblicate non implicano responsabilita’ alcuna per Wall Street Italia, che notoriamente non svolge alcuna attivita’ di trading e pubblica tali indicazioni a puro scopo informativo. Si prega di leggere, a questo proposito, il disclaimer ufficiale di WSI.

(WSI) – E’ un momento ricco di spunti. Partiamo dall’attualità con due temi, il dollaro e la rivisitazione del tema della crisi finanziaria. Saremo telegrafici, perché ci sono anche altre questioni da affrontare.

Sul dollaro la Fed fa capire di non essere favorevole a un ulteriore indebolimento. Dice di essere su questo in accordo con il Tesoro, che ha in effetti giurisdizione sul cambio. Il fatto è che il Tesoro, dopo avere affermato in tutti questi anni di volere un dollaro forte, ha perso ogni credibilità, per cui deve essere adesso la Fed, con tutta la sua autorevolezza, a lanciare il messaggio.


Una parte del mercato ha interpretato la presa di posizione di Bernanke come l’inizio di un ciclo di rafforzamento del dollaro. Non è il caso di spingersi a tanto. E’ meglio limitarsi a prendere alla lettera quanto detto dalla Fed, per la quale in questo momento è vitale limitare il veloce aumento delle aspettative di inflazione.

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Confermiamo quindi l’idea di un range ampio 1.50-1.60 per i prossimi 12-18 mesi, con una fascia più piccola, tra 1.55 e 1.50, per il terzo trimestre, durante il quale l’economia americana dovrebbe mostrare qualche segno di temporanea riaccelerazione. Sperare di più, in questa fase, sembra velleitario. Il disavanzo delle partite correnti americane è ancora sopra il 4 per cento e le esportazioni sono l’elemento che permette di continuare a evitare una recessione. Per un recupero del dollaro degno di questo nome bisognerà aspettare il 2010.

Il secondo spunto di attualità è la rivisitazione delle mefitiche atmosfere pre-Bear Stearns con l’attacco a un’altra grande banca d’investimento e i timori di una nuova crisi di fiducia. Su questo facciamo due considerazioni.

La prima è che il mercato aveva troppo frettolosamente archiviato il tema delle difficoltà del settore finanziario. La seconda è che queste difficoltà, salvo casi isolati, coinvolgeranno da qui in avanti, più che il mondo del cartolarizzato e delle grandi istituzioni, quello dei finanziamenti più tradizionali (prestiti a piccole e medie imprese) e delle banche regionali. Quanto ai casi isolati, la Fed farà di tutto per evitare di replicare l’esperienza di Bear Stearns organizzando una risposta di sistema preventiva per i soggetti considerati sani.

In sintesi la fase attuale può ancora essere considerata di consolidamento moderato dopo il grande recupero terminato a metà maggio. Da metà giugno in avanti il flusso di notizie macro americane (meno in Europa e in Asia) si farà più positivo, con un’esplorazione e un possibile superamento dei massimi di maggio.

Corre però l’obbligo di segnalare il ritorno, per ora solo sottotraccia, di una variabile esogena dimenticata da tempo, la geopolitica. La questione iraniana è tornata al centro dell’attenzione della politica e della diplomazia. I mercati, dopo anni passati a temere eventi che poi non si sono realizzati, non si stanno occupando della questione, ma la questione c’è lo stesso.

Il fatto è che l’amministrazione Bush resterà in carica solo per sette mesi. A fine gennaio si insedierà probabilmente un’amministrazione democratica. Se Israele vuole dare una risposta preventiva alla minaccia nucleare iraniana deve darla adesso se vuole contare su un’America favorevole.

L’ipotesi è stata finora lanciata da fonti democratiche negli Stati Uniti e pacifiste in Europa (l’ex ministro degli esteri tedesco Joschka Fischer) con la probabile intenzione di bruciarla. L’amministrazione Bush nega con forza. La preoccupazione dei democratici è dovuta anche al fatto che un attacco condotto prima delle elezioni di novembre riporterebbe il tema della sicurezza al centro dell’attenzione, favorendo McCain rispetto a Obama.

Un attacco israeliano sarebbe ovviamente limitato alle installazioni nucleari (come fu il caso con l’Irak e come è stato l’anno scorso con la Siria). Quella che è difficile valutare, in questa ipotesi, è la risposta iraniana. L’Iran non avrebbe la solidarietà dei regimi sunniti, che lo temono e lo vedrebbero volentieri indebolito, e un embargo generalizzato del petrolio sul modello del 1973-74 sarebbe improbabile. L’Iran potrebbe però contare sul Venezuela e potrebbe cercare di bloccare il golfo Persico. I governi occidentali renderebbero disponibili le riserve strategiche di greggio e potrebbero essere prese misure per frenare la speculazione, ma il prezzo si muoverebbe comunque in una direzione sola.

La geopolitica, per le sue incognite e la sua incommensurabilità, non deve essere messa al centro dei pensieri di un asset manager, ma deve essere considerata con attenzione da ogni risk manager. In altre parole, un evento al quale attribuiamo, tanto per mettere un numero, un dieci per cento di probabilità, non deve influenzare la direzionalità attesa, ma deve essere ponderato nel decidere il grado di aggressività o, meglio ancora, per acquistare protezione su certe aree del portafoglio più esposte (linee aeree, auto e ciclici in generale). Niente di più, per il momento. Quanto al petrolio e ai titoli dell’energia, siamo dell’idea che vadano acquistati su debolezza indipendentemente dalla questione iraniana (volendo invece includerla, sarebbero da privilegiare i produttori americani, che non hanno interessi in Iran).

Finora abbiamo vissuto quella che l’Economist ha definito una crisi energetica lenta, capace di generare una risposta positiva in termini di riduzione ordinata della domanda e di ricerca di fonti alternative. Un’ipotesi di conflitto produrrebbe però una crisi acuta e una recessione. Il conflitto, inoltre, avrebbe dei costi in sé. Lo scenario degli anni Settanta (con le due crisi energetiche acute e la guerra del Vietnam da finanziare), finora lontano sull’orizzonte anche se in avvicinamento, apparirebbe più vicino.

Prima di vedere che cosa sono stati gli anni Settanta facciamo però il punto sugli ultimi dieci, senza alcuna pretesa di completezza e limitando l’analisi agli Stati Uniti.

Emerge subito che dal 1998 al 2008 il cash e la borsa non hanno prodotto praticamente nulla in termini reali (a salvare la borsa c’è solo un flusso del 28 per cento di dividendi). Il bond trentennale comperato 10 anni fa esatti ha invece reso l’80 per cento nominale (e il 50 reale), supponendo di avere reinvestito le cedole nel bond stesso.

Le case, che da manuale dovrebbero apprezzarsi sul lungo termine in linea con il Pil nominale, hanno fatto qualcosa di più, ma non molto. L’oro è andato certamente bene, ma non tanto come si potrebbe pensare, mentre il vero vincitore, tra gli asset considerati, è il petrolio, che si è apprezzato di quasi sei volte. Da questa rincorsa decennale dovremmo ora entrare, nel peggiore degli scenari possibili, in una riedizione degli anni Settanta. Vediamo allora che cosa significarono.

Dal 1970 al 1981 il costo della vita raddoppiò, ma chi aveva un bond trentennale nel 1970 si ritrovò lo stesso valore nominale nel 1981, con metà del potere d’acquisto. Sappiamo che solo nella finanza neanderthaliana si comprava un trentennale per tenerlo trent’anni, ma quarant’anni fa qualche zia Evelina che si comportava così c’era ancora.

Nei formidabili anni Settanta le case e le borse mantennero il loro potere d’acquisto (nel caso della borsa solo grazie a un 39 per cento di dividendi) e la vera sorpresa, vista con gli occhi di oggi, fu il cash, che in undici anni raddoppiò il suo potere d’acquisto. Dopo i primi anni, infatti, il Tesoro americano non riuscì più a rifilare T-Bill a tasso reale zero o negativo (come oggi) e dovette pagare profumati tassi reali. I trionfatori della stagflazione furono non le case (come abbiamo visto) ma l’oro e il petrolio che aumentarono rispettivamente di 13 e di 19 volte (o di 6 e di 8 in termini reali). Prima di fare qualche considerazione sul futuro che ci aspetta, vediamo, già che ci siamo, il quadro di sintesi dal 1970 al 2008.

In questi quasi 40 anni di dopo Bretton Woods il costo della vita (si parla sempre di America) è aumentato di 5 volte, il valore di un investimento in trentennali di 9, esattamente come le case. Il cash (difficile a credersi, ma abbiamo verificato) è aumentato di 13 volte. L’oro di 18. La borsa di 20 (di 25 se calcoliamo i dividendi) e il petrolio di 40.

Sono cifre che fanno venire il capogiro (un grazie a Maurizio Binelli per il number crunching). A un cash che batte case e bond non avremmo mai pensato.
Venendo alle lezioni per il futuro ribadiamo che lo scenario di base rimane quello di stagflazione light (crescita bassa ma non nulla e inflazione brillante ma sotto controllo) e non quello di un ritorno conclamato agli anni Settanta.

In ogni caso, per i prossimi anni non si può aspettare dal cash e dai bond un ritorno totale così favorevole. Lo stesso per le case.

Per le borse, lo stabilizzarsi di un’inflazione più alta dovrebbe portare a un’ulteriore erosione dei multipli, compensata augurabilmente da un miglioramento lento degli utili. Al termine di questo lungo ciclo di correzione, iniziato nel 2000, le borse risulteranno particolarmente interessanti.

L’oro terrà il suo potere d’acquisto e lo accrescerà moderatamente in questa fase di stagflazione leggera (a condizione che non ci siano recessioni) e inizierà a splendere meno se a questa fase seguirà un ciclo di disinflazione e di rialzo delle borse.

Il petrolio, che nei dati presentati risulta sempre vincitore, scese in realtà drammaticamente per due decenni, gli anni Ottanta e Novanta. Non vediamo però all’orizzonte nessuna possibilità di discesa prolungata e importante. Il fatto che il greggio costi oggi 40 volte di più che nel 1970 non è dovuto necessariamente a una bolla, ma al fatto che sta cominciando a diventare prezioso. Il petrolio non è riciclabile come l’oro o il rame o quasi tutto. Se ne va per sempre. Nel 1970 tutto il gas che usciva dai pozzi durante l’estrazione di greggio veniva bruciato sul posto, tanto valeva poco ed era considerato infinito.

E’ lo stesso gas che, diventato prezioso, preoccupa oggi l’Europa perché la mette alla mercé della Russia e che è diventato insufficiente perfino nel golfo Persico.

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