Economia

Ecco perché la pasta made in Italy è troppo salata

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In Italia è sempre più a rischio la produzione agricola di grano duro (la più estesa per superficie nel Paese), materia prima per un prodotto di eccellenza del Made in Italy come la pasta. Il prezzo continua, infatti, a sprofondare: le quotazioni sono crollate da 580 euro/tonnellata del giugno 2022 agli attuali 340 euro/tonnellata alla Borsa merci di Foggia.

Il costo della pasta? 2,13 euro al chilo. Le città più colpite

C’è un apparente paradosso a dominare la scena: la materia prima è sempre più deprezzata, anche a causa dell’importazione massiccia di grani esteri che spingono verso il basso le quotazioni del frumento italiano, ma la pasta e il pane nei supermercati costano sempre più cari (a marzo la pasta di semola di grano duro è aumentata del 17,5% anno su anno) e le grandi marche stanno ‘mietendo’ profitti in crescita esponenziale, mentre le aziende cerealicole sono in crisi.

Ad esempio ad Ancona, città che vanta il prezzo più alto d’Italia, un chilo di pasta costava in media a marzo 2,44 euro (Modena 2,41 euro/kg, Cagliari 2,40 euro/kg, Bologna 2,39 euro/kg, Genova 2,38 euro al kg), e solo in 12 province i listini di spaghetti, rigatoni, penne ecc. risultavano inferiori ai 2 euro al kg.

I rincari più pesanti si sono registrati in diverse province della Toscana: il record spetta a Siena, dove un chilo di pasta è salito da una media di 1,37 euro/al kg dello scorso anno ai 2,17 euro di marzo, con un aumento del 58,4%. Incrementi superiori al 50% anche a Firenze (52,8%) e Pistoia (51,8%).

Il prezzo medio della pasta in Italia è attualmente pari a circa 2,13 euro al kg, con un aumento medio del +25,3% rispetto allo scorso anno, quando i listini erano pari in media a 1,70 euro/kg.

È vero che in generale il carrello della spesa è più caro di quasi il 10% rispetto a un anno fa a causa dell’inflazione cosiddetta vischiosa o appiccicosa (tecnicamente sticky prices, quando cioè i prezzi, invece di rientrare nel range ideale, ne rimangono stabilmente al di sopra, letteralmente “attaccati” a livelli molto superiori e con un ritmo di discesa verso la norma vischioso).

Ma è anche vero che un aumento del prezzo della pasta quasi doppio rispetto al tasso di inflazione non passa certo inosservato tra gli scaffali e porta i consumatori a limitare i consumi e ad indagarne i motivi, soprattutto considerando che si è ridimensionata l’emergenza bellica. Quanto potrà durare la “dieta forzata”? Qualcuno ci sta guadagnando indebitamente, alzando i prezzi in misura doppia rispetto all’inflazione (pari all’8,3%) per fare cassa?

Il ruolo chiave della concorrenza estera

Oltre alla già citata iperinflazione che ha reso più care non solo le materie prime ma anche i processi produttivi di lavorazione (energia, trasporti, imballaggi, lavoro), sta avendo un ruolo chiave la concorrenza estera, come evidenziato dalla CIA (Confederazione Italiana Agricoltori). La guerra in Ucraina, nonostante inizialmente abbia causato uno shock anche sul mercato dei cereali, non sembra aver determinato un blocco dell’export di grano.

Anzi, la decisione dell’UE di eliminare i dazi per aiutare Kiev ha fatto arrivare in Europa frumento a buon mercato (anche se principalmente tenero). Anche i raccolti del Canada, da cui importiamo il 14,4% del grano, sono stati buoni grazie al clima favorevole e hanno aumentato l’offerta. Ed è proprio qui che si cela la principale fonte del disallineamento tra prezzo della materia prima e del prodotto finito.

Le proposte per sostenere il grano duro Made in Italy

Il grano ucraino ha un prezzo inferiore ed è quindi molto appetibile per le industrie molitorie e della pasta”, spiega Angelo Miano, presidente CIA (Confederazione Italiana Agricoltori) per la provincia di Foggia, l’area che detiene il primato della produzione di grano duro in Italia. “Costa meno di quello italiano perché ha costi di produzione inferiori ai nostri. In Ucraina, inoltre, non vigono le normative UE sull’uso di pesticidi e sugli standard di qualità e sicurezza alimentare. Non è concorrenza tra poveri, perché a essere ricchi e ad arricchirsi ancora di più sono soltanto le grandi aziende produttrici che in Ucraina hanno il controllo totale della produzione cerealicola del loro Paese”, aggiunge l’esperto.

I margini per le aziende agricole italiane in questo modo si restringono troppo, tanto da mettere a rischio la prossima stagione di semine. La Confederazione Italiana Agricoltori ha lanciato anche una petizione per salvaguardare e incentivare la coltivazione del grano duro Made in Italy, ponendo l’attenzione sulla valorizzazione dell’origine del prodotto e chiedendo maggiori risorse da investire sui contratti di filiera che favoriscano le produzioni domestiche. Per una strategia di medio/lungo periodo CIA ritiene, inoltre, necessari forti investimenti in ricerca per aumentare le rese e favorire produzioni sempre più sostenibili anche in chiave ambientale. Il rafforzamento della filiera aumenterebbe così gli investimenti dei nostri produttori e ridimensionerebbe il ricorso all’import.

Per implementare l’autosufficienza nazionale e aiutare le aziende a produrre più grano di qualità come richiesto dell’industria molitoria, occorre lavorare sulla trasparenza dei prezzi con il ripristino della CUN (Commissione Unica Nazionale) favorendo il dialogo interprofessionale. Ed è allo stesso tempo necessaria l’istituzione di Granaio d’Italia e del relativo Registro Telematico dei Cereali, che prevede azioni di contrasto verso i fenomeni speculativi. Si devono, infine, studiare con Ismea nuovi strumenti che certifichino i costi di produzione del grano duro”, rimarca Cristiano Fini, Presidente Cia-Agricoltori Italiani.

Cala il grano, aumenta la pasta. Chi ha ragione?

Per completare il quadro bisogna poi tenere in considerazione altri due fattori: il prezzo della pasta all’origine e il ritardo di aggiustamento dei prezzi.

Come sottolineato da Unione Italiana Food, l’Associazione al cui interno sono rappresentati anche i pastai, il prezzo della pasta all’origine, quindi comprata in fabbrica, è aumentato dell’8,4% in un anno (dati Istat, marzo 2023 su marzo 2022). Circa la metà del rincaro percepito dal consumatore. Il motivo? Gli industriali puntano il dito verso la Grande Distribuzione Organizzata, che avrebbe aumentato i prezzi più dei costi.

Accuse respinte dalle catene della GDO, che lamentano un aumento dei costi (energia, logistica, personale, eccetera) a fronte di un’inflazione che sta mettendo in difficoltà il consumatore e una guerra di prezzo tra i supermercati.

Il secondo motivo portato dai pastai riguarda il fatto che la pasta venduta oggi è stata fatta con il grano acquistato mesi fa, quando le quotazioni del frumento erano molto più elevate. Ma non solo, perché anche il costo dell’energia, importante voce di bilancio per l’industria, era alle stelle. Ecco dunque che man mano che verranno smaltite le scorte della pasta fatta con il grano a 580 euro, scenderanno anche i prezzi. E in effetti, in un mese, si sono abbassati dell’1%.

Sostanzialmente un cane che si morde la coda, nella morsa del nemico apparentemente “invisibile” che, alla fine, è più democratico di quanto si pensi: l’inflazione. Fortunatamente la pasta non è l’alimento che “pesa” di più sul carrello della spesa. Con un consumo annuo pro capite di circa 20 chili di pasta all’anno, l’impatto per una famiglia di quattro persone è di 30-40 euro.