Economia

Deal e No-Deal Brexit: differenze

Questa notizia è stata scritta più di un anno fa old news

A meno che non venga concordata, come probabile, un’estensione dell’articolo 50 sull’esecuzione della Brexit, entro fine marzo si conosceranno i termini di recesso del Regno Unito dall’Unione Europea. La No Deal Brexit e la Brexit con l’accordo presentano differenze sostanziali. Nel primo caso nessun patto preventivo fra le parti ridurrebbe le asperità che un’uscita dall’Ue implicherebbe, sotto il profilo giuridico ed economico.

In breve, uscire dall’Ue con un accordo permetterebbe al Regno Unito di mantenere continuità nel business, nelle condizioni che regolano la circolazione internazionale delle merci, nelle catene del valore che legano l’industria britannica (in particolare il settore auto) all’Unione Europea e viceversa. Senza contare le implicazioni per la libera circolazione delle persone e la spinosa questione del confine irlandese.

Il governo May ha concordato con gli altri membri Ue un accordo sul recesso dall’Ue che è stato ampiamente respinto dal parlamento britannico a gennaio. Esso consiste in un “accordo di ritiro” di 550 pagine, che stabiliscono i termini delle nuove relazioni fra Londra e l’Ue, in termini di contributi finanziari futuri da parte del Regno Unito, sulla situazione del confine irlandese, sui reciproci diritti dei cittadini comunitari e britannici residenti nei rispettivi territori.

Chi è contro il Brexit deal firmato a dicembre

I conservatori britannici più decisi ad affrontare una rottura netta dall’Ue denunciano il Brexit deal per via dei vincoli che imbrigliano il Paese in varie materie e che farebbero del Regno Unito “uno stato vassallo” di Bruxelles, pur non contribuendo politicamente a orientarne le decisioni. Secondo i sostenitori della Brexit morbida, invece, la via dell’accordo è l’unica in grado di minimizzare le conseguenze negative per le imprese e i consumatori. In caso di No Deal, infatti, si teme un’impennata dei prezzi sui beni importati che ridurrebbe il potere d’acquisto dei consumatori e infiammerebbe l’inflazione.

Lo scorso dicembre il governo ha pubblicato un vademecum per le imprese, che prepara il terreno per affrontare un’eventuale Brexit senza accordo a partire dalla fine di marzo. Ecco come Londra intende agire:

“Nel caso di un ‘no deal’ (…) il governo cercherà di porre immediatamente in vigore accordi bilaterali tra il Regno Unito e i paesi terzi sin dal giorno di uscita, o il prima possibile da allora in poi. Questi nuovi accordi replicheranno per quanto possibile gli accordi dell’Ue già esistenti e gli stessi effetti preferenziali con i paesi terzi, apportando nel contempo le modifiche tecniche necessarie a garantire che gli accordi operino in un contesto bilaterale”.

Governo UK: “vitale moderare aumento costi commercio”

L’Unione Europea, infatti, ha stretto accordi commerciali con numerosi Paesi terzi, di cui il Regno Unito potrà godere fintantoché rimane membro dell’Ue. È vitale, dunque, moderare l’incremento dei costi del commercio internazionale proponendo ai vari Paesi extra-Ue accordi “fotocopia” che lascino nella sostanza le cose come sono ora – o, perlomeno, simili quanto più è possibile.

“Laddove le disposizioni per mantenere particolari preferenze in uno scenario di assenza di accordi non siano in vigore entro il giorno dell’uscita, il commercio avverrebbe in base alle condizioni del Wto”, proseguiva la guida del governo. “In base a tali termini, gli operatori pagherebbero la tariffa most-favoured-nation (Mfn). Questi sono i dazi applicati in modo omogeneo [da ciascuno stato] verso tutti quei paesi con cui non sono previsti accordi preferenziali. In caso di mancato accordo, il governo determinerà e pubblicherà un nuovo programma tariffario Mfn del Regno Unito prima di lasciare l’Ue”.

In assenza di nuovi accordi bilaterali, la No Deal Brexit renderebbe più cari beni britannici esportati all’estero e più care le importazioni – e per un periodo di tempo non facilmente prevedibile. Le stime del governo britannico calcolano che questo scenario costerebbe il 9,3% del Pil nel giro di 15 anni, rispetto allo scenario di permanenza nell’Ue.

Al contrario, strappare l’ok della Camera dei comuni al Brexit deal offrirebbe una finestra temporale di 20 mesi durante i quali, pur essendo avvenuta formalmente l’uscita dall’Ue, restano vigenti le stesse regole. Compreso il finanziamento britannico al budget europeo per 39 miliardi di sterline. Durante questo periodo, Londra potrebbe stringere con calma i nuovi accordi commerciali con le terze parti e con la stessa Unione Europea.