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Cina affila le armi contro gli Usa. Tutte le opzioni in campo

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Dopo l’aumento dei dazi dello scorso venerdì, la Cina affila le armi e si prepara a mettere in campo misure di ritorsione contro gli Stati Uniti. Diverse le opzioni sul tavolo a disposizione di Pechino. Come si legge in un editoriale, pubblicato oggi sul People’s Daily, quotidiano controllato dal partito comunista, “In nessun momento la Cina perderà il rispetto del Paese, e nessuno dovrebbe aspettarsi che la Cina ingoi frutti amari che danneggiano i suoi interessi principali”.

Nel frattempo, Wei Jianguo, ex viceministro al Ministero del Commercio, oggi vice presidente del China Center for International Economic Exchanges, un think tank legato al governo cinese, ha detto in un’intervista al il South China Morning Post he Pechino dispone di molte carte per difendersi dagli Stati Uniti ed è probabile che applichi sanzioni che vanno oltre le tariffe sul commercio di beni.

“La Cina si stava infatti preparando ad acquistare 100 aerei Boeing del valore di oltre 10 miliardi di dollari, nel tentativo di venire incontro alle richieste degli Stati Uniti per ridurre il deficit commerciale fra i due Paesi” ha spiegato Wei Jianguo, affermando che si le ritorsioni potranno riguardare i settori finanziario, turistico e culturale.

Dai bond al calo dello yuan, tutte le armi di Pechino

Tutto è cominciato quando Pechino ha fatto un passo indietro rispetto agli impegni sul furto di proprietà intellettuale e sui trasferimenti tecnologici forzati. Un nodo importante della recente escalation pare sia stata l’insistenza da parte del governo Usa sul diritto di tornare a imporre unilateralmente i dazi, nel caso la Cina dovesse mancare ai suoi impegni.

Sul fronte finanziario, come sottolinea il Sole 24 Ore, le autorità di Pechino stanno già ricorrendo all’opzione nucleare, usando l’arma dei bond.

“Nella settimana appena conclusa, infatti, il conto di Tesoreria dei governi stranieri presso la Federal Reserve è sceso inaspettatamente di 670 milioni di dollari a 3,06 miliardi, provocando più di un nervosismo alla leadership americana: su quel conto, la parte del leone la fa la Cina, primo creditore degli Usa e primo finanziatore della politica del deficit spending di Donald Trump“.

Per Susan Shirk, ex vice segretario di stato durante l’amministrazione Clinton, la Cina metterà in atto contromisure, le più adeguate possibili.

“Penso che i nostri agricoltori e le nostre esportazioni agricole in Cina saranno presi di mira perché questo è ciò a cui il Presidente Trump importa politicamente” Ma non solo. Shirk ha detto di aspettarsi una maggiore pressione sulle aziende americane che operano in Cina. Tra queste un rallentamento delle approvazioni per le banche e controlli sulle importazioni.

Nella lista delle opzioni, infine, ci sarebbe un eventuale deprezzamento della valuta. Cioè, un calo di valore per lo yuan che darebbe alle esportazioni cinesi un vantaggio commerciale e potenzialmente compenserebbe l’impatto delle tariffe statunitensi.

“Pensiamo che la valuta sia un settore in cui Pechino ha un chiaro vantaggio rispetto a Washington”, ha detto Bo Zhuang, capo economista in Cina presso la società di ricerca TS Lombard.

Tre scenari della Oxford Economics

Sui possibili futuri sviluppi della guerra commerciale Gregory Daco, responsabile per gli Usa della società di ricerca britannica Oxford Economics, ha costruito tre possibili scenari. Nel primo, quello minimo, la decisione dell’amministrazione Trump di rialzare le tariffe dal 10% al 25% su 200 miliardi di dollari di prodotti importati dalla Cina e l’annunciata ritorsione di Pechino, che consisterebbe in un aumento delle tariffe dell’8% su circa 60 miliardi di dollari di beni importati dagli Stati Uniti, determinerebbe un calo del Pil Usa dello 0,3% nel 2020 e una discesa dello 0,8% del Pil cinese.

Nello scenario più grave in cui Washington dovesse decidere di alzare il tiro e tassare del 25% tutte le importazioni cinesi negli Usa, provocando una ritorsione della stessa portata da parte di Pechino, determinerebbe una contrazione dello 0,5% del Pil Usa nel 2020, che porterebbe il Pil reale pericolosamente vicino all’1%. Per la Cina,il Pil subirebbe una contrazione dell’1,3% scendendo al 5% circa, mentre a livello globale l’economia incorrerebbe in una frenata dello 0,5%.

Infine, l’ipotesi estrema, che prevede una guerra commerciale globale Ciò comporterebbe, secondo Daco, aumenti tariffari del 35% da parte degli Stati Uniti su tutte le importazioni cinesi, tariffe del 25% da parte di Washington sulle importazioni globali di auto e dazi del 10% su tutti gli altri beni importati dall’Ue, da Taiwan e dal Giappone, con ritorsioni equivalenti da parte degli altri Paesi sui beni importati Usa. Questa opzione porterebbe ad una contrazione del 2,1% del Pil Usa, che finirebbe in recessione già alla fine del 2019.

Per la Cina l’arretramento del Pil sarebbe del 2,5%, mentre l’Europa e il Giappone subirebbero uno stop dell’1,5% delle loro economie. Durissimo anche il contraccolpo sull’attività economica globale, che frenerebbe dell’1,7%.

Legg Mason: le possibili conseguenze

Chia-Liang Lian, Head of Emerging Markets Debt di Western Asset (affiliata Legg Mason), ritiene che la possibilità di una risoluzione bilaterale sia rimandata alla seconda metà del 2019: in risposta alla mossa degli USA, la Cina ha già annunciato contromisure. Di certo, il rinnovarsi delle tensioni commerciali avrà un impatto sugli asset di rischio. In Cina, subito dopo l’annuncio di Trump i titoli azionari sono crollati, mentre lo yuan di è deprezzato dello 0,75%.

“Un periodo prolungato di crescenti tensioni potrebbe alimentare le incertezze sulle prospettive di crescitaprospettive di crescita globali. Le autorità cinesi dispongono degli strumenti di politica economica per affrontare le difficoltà cicliche, ma qualsiasi misura dovrà comunque fare i conti anche con fattori secolari che limiteranno il ritmo della crescita cinese sul lungo periodo.

Un’altra cosa importante è che “i vicini paesi asiatici ed emergenti potrebbero risentire degli effetti a catena, soprattutto in uno scenario che sembra diventare più protezionista”.