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CASO ENRON: GLI EFFETTI CERTIFICAZIONE DEI BILANCI

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E’ tempo di anniversari. Trascorsi appena sei mesi dai tragici avvenimenti dell’11 settembre, si avvicina ora la scadenza dei sei mesi dalla notizia del fallimento Enron. Di certo e’ troppo poco per far luce su quello che e’ stato definito il piu’ grosso scandalo finanziario del dopoguerra. Possono pero’ bastare per fare alcune osservazioni generali, e magari trarre qualche conclusione, sia pure preliminare.

Vediamo prima di tutto il ruolo dei revisori di conti. La stampa di tutto il mondo non ha mancato di sottolineare che hanno sicuramente fatto una gran brutta figura. La cosa non dovrebbe scandalizzare piu’ di tanto, dopo tutto errare e’ umano, anche per i migliori professionisti. Si pensi al paziente deceduto subito dopo l’operazione, oppure alla causa persa per un errore, tattico o giuridico, dell’avvocato. In tutti questi casi l’esito, disastroso per il cliente del professionista, è riconducibile ad una delle seguenti ragioni:

1. Incompetenza del professionista.
2. Frode: il professionista agisce con intenti disonesti o criminosi.
3. Malinteso: il professionista agisce in base ad un equivoco sul proprio ruolo o sui propri obblighi.

Nel caso Enron si puo’ scartare la prima ipotesi. Arthur Andersen e’ una delle piu’ grandi societa’ di revisione con un’esperienza quasi centenaria. Enron, poi, era uno dei suoi maggiori clienti e per di più decennale.

A mio avviso si puo’ escludere anche la seconda ipotesi. Difficile ritenere il rapporto tra le due come un’associazione a delinquere tra una delle piu’ grandi societa’ americane e uno dei maggiori revisori. Anche perché una truffa di tali dimensioni era inevitabilmente destinata a finire, cosa ovvia per tutti gli interessati.

Resta dunque la terza ipotesi. Ed è proprio qui che, a ben guardare, si trova la chiave di lettura dell’intera vicenda. Certificare un bilancio, infatti, una volta significava certificare che quello fosse “essenzialmente veritiero”. Era l’esigenza, nata all’indomani della famosa crisi di borsa del 1929, di garantire all’investitore informazioni univoche ed attendibili sulla salute delle societa’ quotate in borsa. Questa interpretazione dell’obbligo del revisore ha retto, e tutto sommato ha funzionato bene, per molto tempo.

Nel corso degli ultimi vent’anni, pero’, la certificazione è andata cambiando a poco a poco. Ormai significa soltanto che il bilancio rispetta tutte le norme contabili generalmente accettate (GAAP, ovvero “Generally Accepted Accounting Principles”,). Se un bilancio è certificato conforme alle suddette norme, si presume che sia anche veritiero. Presunzione, questa, molto pericolosa. Accettarla significa svalutare il ruolo della diligenza e dell’esperienza nell’attivita’ di revisione. Sarebbe come se al chirurgo chiedessimo soltanto di applicare alla lettera le procedure imparate all’universita’, o al pilota di seguire scrupolosamente le regole dell’aviazione civile, anziche’ considerarli responsabili della vita del paziente o di quella dei passeggeri.

Come e’ potuto succedere? Prima di tutto perche’ e’ andata aumentando vertiginosamente la complessita’ delle operazioni di “ingegneria finanziaria” praticate dalle grandi societa’: Enron, Global Crossing, Tyco e perfino General Electric, tanto per nominare i casi piu’ recenti. Poi perche’ tutte le grandi societa’ di revisione si sono espanse nel settore dei servizi di consulenza strategica e di gestione. Servizi offerti per lo piu’ ai medesimi clienti, provocando non soltanto inevitabili conflitti di interessi ma anche una notevole riluttanza a rischiare un rapporto contrattuale di centinaia di milioni di dollari in nome della chiarezza dei bilanci.

E cosi’ ci troviamo di fronte a episodi quanto meno sconcertanti, come la Andersen che scopre si’ una partnership del valore di oltre $1 miliardo che andrebbe riportata nel bilancio Enron, ma rinuncia altresì ad imporre la regola perche’ l’importo “non e’ materiale”, cioè e’ troppo piccolo in rapporto al bilancio totale della societa’ cliente (altra norma GAAP). Se avessero scavato avrebbero naturalmente trovato moltre altre partnerships sospette, il cui totale era “materiale”, eccome.

Cose che capitano, si può dire, e che provocano sconcerto e magari anche la fine di qualche carriera illustre, ma poi si fermano li’. Nel caso Enron, pero’, le colpe dei revisori della Arthur Andersen, vere o presunte che siano, si stanno estendendo all’intera categoria. La quale, da parte sua, contribuisce ad alimentare le fiamme caldeggiando una serie di misure, altamente pubblicizzate, per “riformare dall’interno” la professione e irrobustire le norme GAAP, e d’altra parte opponendosi caparbiamente ad altre proposte piu’ concrete, quali la periodica rotazione obbligatoria dei revisori.

Si puo’ star certi che il dibattito sara’ lungo e complesso, soprattutto considerato che qui negli Usa siamo in un anno di elezioni. Eppure basterebbe poco: il semplice ritorno al concetto di revisione come indagine per certificare che il bilancio e’ fondamentalmente vero, e non una patacca.

* Stefano Falconi, direttore finanza del Massachusetts Institute of Technology