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CARLYLE E BEAR STEARNS: E’ INIZIATO IL BIG CRASH?

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(WSI) – Il termine «collasso strutturale» lo usa Ben Halliburton, stratega della Tradition Capital. Invece per Brian Barish, presidente della Cambiar Investor, «è il momento più terribile da decenni». Per la prima volta venerdì, il panico, quello vero, si è diffuso a Wall Street. Stretti fra la crisi della Carlyle e il salvataggio per il rotto della cuffia della Bear Stearns, gli operatori si chiedevano: «Ora cosa ci aspetta?»

Il terrore si è dipinto nei loro occhi per la rapida successione di due elementi nuovi: non sono stati i subprime ad affondare il fondo Carlyle Capital ma dei blasonati titoli basati su mutui market grade con tanto di tripla A, e nel caso della Bear Stearns si è assistito ad un salvataggio in piena regola concertato fra la JP Morgan, che ha inondato di liquidità la banca sull’orlo del collasso, e la Federal Reserve, con il coordinamento di Bernanke in persona.

Due crisi parallele e concatenate. La Bear Stearns infatti è la banca più esposta verso la Carlyle, che a sua volta ha subito alla fine della settimana scorsa i pesanti contraccolpi del collasso di uno dei suoi principali fondi d’investimento. Wall Street ha ceduto sotto la spinta delle cattive notizie, quanto alle due istituzioni hanno vacillato pur senza crollare definitivamente almeno per il momento: la potente finanziaria del private equity per la sua forza intrinseca, la quinta banca d’investimenti americana per l’intervento d’emergenza della JP Morgan, che ha assicurato «tutto il denaro di cui la Bear Stearns avrà bisogno» almeno per i prossimi 28 giorni. La Fed ha attivato la speciale linea di credito predisposta per queste occasioni, utilizzata finora solo per due casi minori.

Ma ora veramente, come dicono gli operatori, tutto è possibile. Venerdì, per completare il dies horribilis, anche la Lehman ha avuto bisogno di qualche interventotampone, e anche qui la Fed ha vigilato: sembra il preludio del Big Crash, o almeno del «fallimento di qualche grossa banca» come profetizzavano nella convulsa serata di venerdì diversi trader di Wall Street.

All’origine dell’ennesima tempesta, le obbligazioni con cui la Carlyle ha costituito il fondo Carlyle Capital, quotato otto mesi fa all’Euronext di Amsterdam e basato sulla cartolarizzazione di mutui in apparenza sani. Invece, 16,6 miliardi di dollari si sono dissolti rendendo vano il tentativo di salvataggio degli altri 5 miliardi rimasti: la Carlyle ha preferito lasciar fallire il fondo anziché continuare a buttarci denaro.

Si è aperta così una pagina nuova: non solo i subprime, sono a rischio tutti i titoli strutturati in qualche modo intorno al mercato immobiliare. La Carlyle chiude drammaticamente la prima esperienza borsistica: il secondo colosso mondiale del private equity dopo Blackstone, con 85 miliardi di patrimonio investito e 200 società in portafoglio, quartier generale a Washington e rapporti privilegiati con il milieu politico a partire dai Bush, quando decide di quotare uno dei suoi 55 veicoli di finanziamento vive il momento di maggior fulgore. Negli stessi mesi si stanno quotando il grande padre Blackstone, e poi il Fortress, anch’esso del Gotha del settore, tutti peraltro con risultati che si riveleranno disastrosi.

Tutto quello che lavorava a favore si trasforma in una trappola, a partire dal leverage esasperato: per comprare le obbligazioni, il fondo ha impegnato 670 milioni di dollari prendendone a prestito 32 volte tanto e arrivando così ai 21,7 miliardi dell’investimento complessivo (di questi se ne sono già bruciati più di 16). Per prestargli i soldi, visto il nome che porta si muovono i colossi della finanza: Bank of America, Citigroup, Merrill Lynch, Lehman Brothers, appunto Bear Stearns. Tutti, via via che l’attivo del fondo si stava svalutando, hanno chiesto di rientrare di parte dei margin call che avevano finanziato, alzando il volume delle garanzie reali. Ora che Carlyle ha smesso di reintegrare le perdite sono stati autorizzati a prendersi il poco che resta.

Le banche (vista l’ampiezza del margin call iniziale) vigilavano sul valore del fondo: quando questo ha cominciato a crollare, hanno chiesto a Carlyle di reintegrare il collateral fino a rientrare nel margine iniziale (1 a 32 come si diceva), minacciando di sequestrare i titoli come indennizzo. Alla fine Carlyle cede, ma non è sufficiente per le banche più esposte come Bear Stearns che ora si dibatte per non affogare. Anche perché, a parte la vicenda Carlyle, ha una serie di altri problemi: tra l’altro è stata la prima banca a sperimentare sulla propria pelle la scottatura dei subprime, quando all’inizio della crisi dell’estate scorsa fallirono due suoi hedge fund da 1,2 miliardi di dollari.

La vicenda dimostra che banche e private equity vivono in simbiosi, e hanno bisogno di un’economia reale che cammini: il mestiere dei private equity è comprare aziende manifatturiere (private, appunto, e non public, insomma non quotate), valorizzarle e poi rivenderle entro 23 anni. Perché l’incremento di valore avvenga serve che l’azienda produca un certo giro d’affari: ma i consumi in America sono fermi. E con essi l’intero sistema diventa a rischio.

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