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BORSE USA: QUANTO DURERA’ IL RALLY?

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Finalmente una pausa per le Borse, nonostante segnali dall’economia USA che stavolta avrebbero
davvero potuto giustificare un andamento migliore dei listini. Le richieste di sussidio sono infatti calate di 13mila unità nella settimana al 14 giugno, a quota 421mila, il leading indicator ha spiccato un balzo dell’1%, al di là delle attese, e l’indice della FED di Philadelphia è ritornato in territorio positivo con una lettura a quota +4. Nulla di eccezionale, certo, ma tutt’altra cosa rispetto alle delusioni patite fino a pochi giorni fa, pur nel mezzo dell’euforia
delle Borse.

Trattandosi di mercati trainati dalla liquidità e da fattori tecnici – e su questi sicuramente pesa la significativa scadenza odierna delle opzioni – non c’è da stupirsi che il legame con i fondamentali non sia molto diretto. D’altra parte, stiamo parlando di un trimestre che dai minimi ha visto l’S&P 500 recuperare oltre il 23%, il Nasdaq quasi il 29% e il nostro MIB 30 il 27% circa, per non parlare dell’eccezionale +47,4% del DAX tedesco e del 32% circa del CAC francese.

Che il rialzo sia andato oltre il ragionevole recupero della “psicosi Iraq” è a nostro avviso indubbio; ma che il movimento si possa già considerare esaurito è tutto da vedere, tenuto conto che una pausa si è registrata anche sull’obbligazionario, in concomitanza con segnali più forti dall’economia che secondo alcuni potrebbero indurre la FED a muoversi con minore decisione nell’incontro in programma settimana
prossima.

I veri guai per l’azionario arriveranno se e quando l’economia non girerà come auspicato, e in quel caso il segnale sarà un altro deciso rally dell’obbligazionario su nuovi livelli record. In caso contrario, l’ipotesi più ragionevole rimane quella di pause temporanee, legate al prevalere di fisiologiche prese di profitto.

Quanto ai dati macro, il segnale più forte ieri è giunto dal leading indicator, con un +1% in maggio. Non è uno dei nostri preferiti, visto che riassume l’andamento di componenti quali la Borsa, la curva dei rendimenti, l’offerta di moneta e le attese dei consumatori – e proprio queste hanno contribuito in misura determinante al balzo dell’indice – che in qualche modo rappresentano solo i presupposti di un futuro riavvio dell’economia, piuttosto che la sua evidenza concreta.

Quanto all’indice della Fed di Philadelphia, con una lettura a quota 4 non si è confermato sui livelli che l’analogo Empire State Index della Fed di New York avrebbe fatto immaginare; a frenarlo è stata però la componente prezzi, scesa da quota +2,1 a –9,5, a conferma di un quadro di disinflazione che potrebbe spingere
la FED a muoversi in maniera ugualmente decisa mercoledì prossimo. A questo proposito proprio ieri uno dei più accreditati commentatori di questioni legate alla FED, John Berry del Washington Post, avvalorava l’ipotesi del taglio di mezzo punto, nella veste di “assicurazione” contro i rischi di deflazione, i cui costi sarebbero molto contenuti, vista la scarsa probabilità di un improvviso riaccendersi dell’inflazione.

I mercati sono tornati a scontare
al 40-50% una simile ipotesi, e questo spiega la ripresa dei bond nel finale nonostante le sorprese positive dal lato dell’economia; stamani però l’altro noto specialista del Greenspan-pensiero, Greg Ip del Wall Street Journal, raffredda le attese, mostrando un dibattito ancora aperto circa l’opportunità di un intervento così netto e del passaggio a misure non convenzionali, quali l’acquisto di titoli sul mercato in modo da influenzare direttamente
anche il livello dei rendimenti a lunga scadenza. L’interessante articolo odierno sul quotidiano americano sviluppa i pro e i contro di questi possibili interventi. Quanto ai tassi USA, dunque, incertezza massima fino a mercoledì
prossimo, ma solo nell’ambito dell’entità di un taglio ormai scontato.

*Michele Pezzinga e’ capo strategist di Eptasim