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BANCHE, LA CRISI CHE VERRA’

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(WSI) – Il primo è già caduto. Venerdì scorso, poche ore dopo la fosca previsione di Ben Bernanke sui “dieci piccoli indiani” del credito che sembrano destinati inevitabilmente alla bancarotta («si avranno con ogni probabilità alcuni casi di fallimento fra le istituzioni finanziarie di minori dimensioni»), è arrivata la notizia che l’hedgefund Peloton Partners ha avviato una svendita di attività per 1,8 miliardi di dollari, accompagnata dalla sospensione dei riscatti sul MultyStrategy Fund da 1,7 miliardi di dollari, che pure al Peloton fa capo. Tutte misure che rappresentano in modo pressoché incontrovertibile l’anteprima della liquidazione.

Il motivo è stato esplicitato senza reticenze: le perdite insostenibili derivanti dagli investimenti connessi con i mutui. Eppure il Peloton non è un fondo qualsiasi: a gestirlo sono due exsuperstar della Goldman Sachs, Geoff Grant e Ron Beller, che per i tre anni passati avevano collezionato utili da far invidia, e dispensato lezioni di finanza avveduta. Ma non è finita. Sempre fra gli hedgefund, la D.B.Zwirn & Co. ne ha chiusi definitivamente due pochi giorni prima. E alla fine della settimana, il colosso assicurativo American International Group ha riportato la maggiore perdita trimestrale dei suoi 89 anni di vita, a seguito di svalutazioni per 11,1 miliardi di dollari di strumenti derivati legati ancora una volta ai subprime.

All’inizio della settimana era stato invece un mostro sacro di Wall Street come la Kohlberg Kravis Roberts a dare pessime notizie, avvisando la Sec, come vuole la legge, di aver intrapreso una ristrutturazione del debito. Significa che ha avviato le trattative con i creditori per ritardare i pagamenti su un’imprecisata ma consistente porzione di debito. I pagamenti erano dovuti venerdì scorso, sono stati ritardati ad oggi, lunedì, ma si parla di un rinvio al 13 marzo. Insomma, un disastro.

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Allora, chi sarà il prossimo? Migliaia di banche, finanziarie, fondi di qualsiasi specie, tremano di fronte alla selezione darwiniana prossima ventura. E cercano affannosamente di guardarsi dentro, di analizzare, scorporare, spacchettizzare ogni minima emissione obbligazionaria che avevano sottoscritto. Nessuno vuole restare col cerino in mano. Ma intanto le stime di venerdì dell’Ubs dicono che il disastro innescato dalla crisi dei subprime causerà 600 miliardi di dollari di perdite nel sistema finanziario americano, e di questi non più di 160 miliardi sono già emersi, sotto forma di deficit o di derubricazioni dai bilanci (writeoff). Gli altri salteranno fuori chissà da dove. Finché non emergono, il mercato del credito resta bloccato.

Ma leggere il Dna del sistema bancario è più difficile che esplorare il genoma umano. Non basta andarsi a guardare caso per caso cifre e relazioni degli ultimi trimestri, né spulciare gli elenchi dei downgrading, né verificare chi è più esposto sul frontemutui, perché la crisi si è estesa all’intera finanza. Certo, si legge in un rapporto di Standard & Poor’s della settimana scorsa riservato ai clienti, «le istituzioni specializzate nel finanziamento dei mutui come Countrywide Financial, Washington Mutual e Residential Capital rimangono fortemente esposte alla correzione in corso nel mercato immobiliare». Come dire, in cima alla lista del pericolo perché il mercato immobiliare resta il fronte più esposto dell’emergenza.

Intanto i valori continuano a diminuire (oggi siamo in media al 15% in meno rispetto ad un anno fa). Giovedì la Fannie Mae, la maggiore agenzia pubblica che gestisce i mutui per i meno abbienti, ha comunicato di aver perso 3,6 miliardi di dollari nel quarto trimestre del 2007 (e 2,1 per l’intero anno). Ancora: le insolvenze sui mutui che godono di copertura assicurativa privata sono salite del 31% a gennaio rispetto a un anno prima, ed è il tredicesimo incremento mensile consecutivo, come ha reso noto venerdì l’associazione di categoria Mortgage Insurance Companies of America. A questo punto, calcola Moody’s, il 17% dei proprietari ha in essere mutui maggiori del valore della casa.

Però non basta per predire quali “piccoli indiani” cadranno. Banche, finanziarie, compagnie assicurative, potrebbero ancora risolvere almeno parte dei loro problemi, intraprendere draconiane politiche di ristrutturazione, insomma cavarsela. E invece i crack come abbiamo visto arrivano da nomi insospettabili dell’universo finanziario. La verità, secondo S&P’s, è che possono sentirsi al sicuro solo le banche veramente blasonate: «Il processo di globalizzazione, consolidamento e diversificazione si legge nel report ha creato fra le 25 e le 35 grosse conglomerate finanziarie mondiali con risorse commerciali e manageriali sufficienti per fronteggiare un vistoso scivolone».

Per tutti gli altri, le incognite abbondano, come ha confermato il presidente della Federal Reserve, e come conferma implicitamente il fatto che lo stesso Bernanke darà quasi di sicuro il via ad un nuovo ribasso dello 0,5% dei tassi il 18 marzo, al quale potrebbe seguire anzi la maggior parte degli economisti dà per sicura anche quest’ulteriore manovra un altro ribasso ancora entro giugno, fino a portare i Fed Fund al 2%, più bassi dell’inflazione (che sfiora il 3). Lo stesso Bernanke, in questo diario di una crisi vissuta in diretta e in modo trasparente dall’America sul proscenio mondiale, ha spiegato che «oggi la preoccupazione dev’essere la recessione e non l’inflazione». Quindi, via libera a tassi d’interesse reale negativi (che implicano anche la svalutazione progressiva del dollaro) pur di stimolare l’economia.

Proprio perché gli Stati Uniti hanno deciso di vivere la crisi senza diaframmi protettivi, perfino il presidente Bush la settimana scorsa ha intrapreso una serie di faccia a faccia con l’opinione pubblica del tutto inusuali. Si tratta della fase 2 della manovra di sostegno all’economia. La prima parte, varata dal Congresso all’inizio del mese, comprende una serie di sgravi fiscali grazie ai quali, ha spiegato Bush, oltre cento milioni di americani riceveranno a maggio un assegno di rimborso.

Poi c’è una serie di misure intermedie come l’incoraggiamento ai magistrati ad essere meno duri al momento di varare i provvedimenti di sfratto per insolvenza, e alle banche perché rinegozino i tassi su base più umana. Ora è in discussione un ulteriore provvedimento di legge, che fissa nuovi parametri sia per concedere i mutui che per fissare gli interessi e le procedure di esecuzione forzata. Ma stavolta il presidente è andato in televisione a spiegare, sempre fiancheggiato dal ministro del Tesoro, Henry Paulson, che non se la sente di intervenire in modo così invasivo sui meccanismi del mercato. Un tema cruciale in America: perfino il candidato più lontano ideologicamente da Bush, Barack Obama, si muove con prudenza, e ancora nessun capitolo della Obanomics è dedicato a questo problema.

Un’altra fase 2 è in pieno svolgimento, quella dei writeoff delle grandi banche d’investimento: hanno riaperto i giochi, dopo le massicce svalutazioni del terzo quarter, i bilanci del quarto trimestre di Lehman, Bear Stearns, JP Morgan e Wells Fargo. Tutte hanno annunciato cancellazioni fino a 2 miliardi. Poi sono arrivati i 9,4 miliardi di Morgan Stanley, i 16,7 di Merrill Lynch, i 18 di Citigroup. E ora gli americani, in quella che chiamano ormai alphabet soup, hanno scoperto una nuova sigla: dopo le collateralized debt obligation (Cdo), gli structured investment vehicles (Siv), è la volta delle variable interest entities, o Vie.

Potrebbe nascondersi in questi ennesimi strumenti di credito, che hanno anch’essi la peculiarità di consentire di tenere fuori bilancio i prestiti più rischiosi, la nuova mina vagante per le banche. Le previsioni variano: secondo Moody’s è una nuova bolla da 30 miliardi di dollari, secondo CreditSights addirittura da 80. Chi ha in portafoglio le Vie? Bloomberg scrive che, a parte i “soliti sospetti” (Citigroup, Merrill Lynch) potrebbe stavolta aprirsi una breccia in nomi che erano riusciti miracolosamente a restare immuni dalla crisi dei subprime a partire da Goldman Sachs. Si apre insomma un ulteriore capitolo nella saga della crisi finanziaria americana che sembra senza fine.

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