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Banche e Btp: un salvagente di piombo a chi annega

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(…) C`è ormai una “questione” bancaria. Perche’ il valore delle banche sembra precipitare in un baratro senza fondo? Dai massimi, Intesa ha perso tre quarti del suo valore (incluso dividendi e aumenti di capitale), che sale a 86% per Unicredito, 92% Mps, 93% Bpm, e 95% Banco Popolare. E i capitali raccolti con gli aumenti, sono evaporati rapidamente.

C`entra la crisi del debito pubblico, ma non solo. La tecnologia e internet hanno messo definitivamente in crisi il modello tradizionale di banca commerciale. Circa il 60% delle transazioni avviene online, e la percentuale salirà con l’avvento degli smart phone. I prodotti bancari sono dematerializzati e poco differenziabili: mutui, bancomat e carte di credito non sono profumi o automobili.

Le banche, quindi, sono diventate grandi reti informatiche che distribuiscono servizi per via telematica. Concettualmente non molto diverse da una società come Google; ma mentre quest`ultima genera 9 miliardi di utili con 25mila dipendenti, la più grande banca commerciale al mondo, l`inglese Hsbc, per produrne 13, impiega 295mi1a persone. Le banche italiane hanno investito massicciamente in costose reti di sportelli, spesso comperandosele tra di loro a valori insensati; adesso dovranno svalutarle (Unicredit ha cominciato a farlo), ridimensionarle e venderle, tagliando rapidamente costi e personale. Una ristrutturazione resa più urgente dall` arrivo di una recessione in Italia, con sofferenze in aumento e commissioni in calo.

In questo le banche assomigliano alle acciaierie degli anni `70: con un prodotto a basso valore aggiunto, e schiacciate tra l`aumento dei costi energetici e la concorrenza dei paesi emergenti, sono state obbligate a un drastico ridimensionamento.

Il declino dell`attività bancaria tradizionale è stato a lungo mascherato dagli utili derivanti dall`utilizzo della leva finanziaria: si è sfruttato lo status di banca universale per dilatare le attività in bilancio, investendo in titoli, derivati e partecipazioni, finanziati con obbligazioni e sul mercato all`ingrosso dei capitali. Oggi, patrimonio e depositi della clientela finanziano appena il 47% delle attività di Unicredito e il 38% di Intesa;
in Europa, Societè Generale è al 31% e Deutsche Bank addirittura al 28%.

La crisi post Lehman ha però imposto una riduzione della leva, e l`aumento dei coefficienti patrimoniali. Che le banche hanno aggirato imbottendosi di titoli di stato, per lucrare il differenziale con il basso costo dei finanziamenti della Bce; in questo aiutati dalla decisione del regolamentatore di considerarli privi di rischio ai fini dei requisiti di capitale.

Scelte poco lungimiranti: la crisi del debito pubblico si è subito trasformata in crisi generalizzata delle banche europee. Le quali non fidandosi più una dell`altra, hanno tagliato i crediti sull`interbancario, innescando una crisi generalizzata di liquidità.

La crisi di fiducia si è estesa al mercato dei capitali: il Financial Times calcola che quest`anno le banche europee non siano riuscite a rifinanziare 240 miliardi di obbligazioni in scadenza. Invece di isolarsi dalla crisi, tagliando gli investimenti in debito pubblico, le banche continuano ad aumentarli; in questo spinte dalla Bce che ha esteso di proposito il credito illimitato a un anno di scadenza, e ora fino a tre. Evidentemente si vuole dare un forte incentivo alle banche perché partecipino alle aste e sostengano il finanziamento dello Stato. Ma è come lanciare un salvagente di piombo a chi sta annegando. Anche perché il regolamentatore europeo ha poi chiesto alle banche di svalutare, una tantum, ai prezzi del 30 settembre, i titoli di Stato in portafoglio. Decisione contradditoria, col solo apparente di imporre aumenti di capitale alle banche italiane e spagnole.

La crisi di liquidità delle banche potrebbe trasformarsi rapidamente in insolvenza, anche senza un default del debito pubblico. Il rendimento dei prestiti bancari, oggi mediamente del 3,5% in Italia, è legato al tasso comune euribor; ma il costo della raccolta dipende dal rischio paese, che per l`Italia ormai va dal 6% a tre mesi, al 7,5% a tre anni.

Se queste condizioni perdurano, le banche sono fuori mercato, perché perdono soldi sui nuovi prestiti. Una prospettiva che rende difficile la raccolta di nuovi capitali. Nessuna sorpresa che i recenti aumenti siano stati rapidamente bocciati dalla Borsa.

Il destino immediato delle nostre banche è dunque legato a quello del debito pubblico. Ma non deve essere usato come una scusa per non agire. Bisognerebbe tagliare drasticamente costi e investimenti in titoli di stato; fare cassa vendendo banche del gruppo o reti di sportelli al migliore offerente, anche se stranieri; in certi casi fondersi con altre banche, per guadagnare in economie di costo; le popolari trasformarsi in società per azioni per meglio accedere al mercato dei capitali; e cercare azionisti sul mercato, senza contare sulle fondazioni che in gran parte non hanno più i patrimoni per sostenerle, avendoli immobilizzati in partecipazioni a multipli dei valori di mercato, sempre più spesso indebitate, e ancora dipendenti dai dividendi che però, realisticamente, le banche non potranno più assicurare.

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