Società

AZIONARIO:
NO PROBLEM,
NON CADREMO
IN DEPRESSIONE

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(WSI) – Dai massimi del 9 maggio tutte le Borse non hanno fatto altro che scendere: -7% Wall Street, -15% Tokyo, -12% l´Europa, -9% Piazza Affari. Per gli investitori, assuefatti alle crescite record degli ultimi tre anni (dal 110% in Europa, al 210% nei mercati emergenti), è un brusco risveglio.

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L´indice è puntato verso le banche centrali, che condurrebbero una caccia alle streghe contro l´inflazione, aggravata dalla goffaggine di Bernanke davanti ai microfoni e dall´ambiguità di Jean Claude Trichet. Insensato: le banche centrali stanno solo somministrando una sana dose di realismo a mercati che sognavano a occhi aperti.

L´inflazione, comunque la si misuri, sta accelerando, ovunque nel mondo. Nel primo trimestre, il deflatore del Pil americano (l´indice dei prezzi più ampio possibile) è cresciuto del 3,2%; il costo della vita negli Usa, del 5% da inizio anno. In Europa, a maggio siamo al 2,5%, stabilmente al di sopra del tetto del 2% fissato dalla Bce. La crescita dei prezzi dipende in larga parte dal costo del petrolio e delle materie prime; tolte queste, l´indice cosiddetto “core”, non preoccupa. Ma sarebbe sbagliato continuare a considerare l´impennata del prezzo dell´energia un evento straordinario, e quindi componente temporanea da sottrarre dal computo: lo scenario dell´offerta è cambiato in peggio; non esistono margini per aumentare in tempi ragionevoli la capacità di estrazione e raffinazione; e a questo si aggiunge l´insaziabile fame energetica dell´Asia, che ci costringerà a convivere a lungo con un costo del greggio elevato.

Nonostante i rincari di petrolio e materie prime, le imprese sono riuscite ad aumentare i margini di profitti a livelli record, pur senza ritoccare i listini. Non può durare, perché la capacità produttiva inutilizzata, che negli ultimi anni aveva permesso alle economie di espandersi senza inflazione, è stata riassorbita. Gli Usa crescono al di sopra del loro tasso potenziale da almeno tre anni (e la disoccupazione è al minimo storico del 4,6%): se non rallenteranno, gli ulteriori aumenti della domanda si ripercuoteranno sui prezzi alla produzione e sul costo del lavoro. In Giappone la fase decennale di deflazione è terminata. In Europa la ripresa è finalmente solida (+2,3% nel primo trimestre rispetto al precedente). Non siamo a livelli “americani”, ma non conta tanto il valore in sé, quanto il tasso potenziale al quale l´economia si può espandere: che, considerati i problemi di sempre (mercato del lavoro, dei servizi e costo del welfare) non è irragionevole ipotizzare intorno al 2%, a metà della forchetta di crescita che la Bce si aspetta per quest´anno e per il prossimo.

Qualunque sia il tasso potenziale, il livello dei tassi di interesse deve essere coerente con lo stadio del ciclo economico. Gli Usa, al picco dell´espansione, non corrono il rischio di una recessione se la Fed li alzasse dal 5% al 5,5% per la fine dell´estate. In Europa il rischio è addirittura l´opposto: nonostante l´aumento di ieri, i tassi reali a breve rimangono prossimi allo zero. Troppo poco per un´economia già in crescita avviata; e una concessione troppo generosa alle pressioni dei Governi alle prese con il risanamento delle loro finanze.

La politica monetaria non va valutata solo guardando al livello dei tassi. Oggi nel mondo c´è liquidità in eccesso: basta guardare al premio per il rischio su qualsiasi attività, che rimane vicini ai minimi storici; o al prezzo di immobili e materie prime, a livello da bolla. In Europa poi il credito si espande al 9%, il doppio del reddito nominale.

Gli anni settanta e ottanta hanno insegnato ai banchieri centrali a considerare, più che l´inflazione, le aspettative. Se si guarda ai tassi a lungo termine dei titoli di Stato non si trovano segnali d´allarme. Ma non bisogna illudersi: il passato insegna anche che, quando questi si muovono, è troppo tardi, perché l´inflazione attesa è già aumentata; e diventa allora costosissimo stabilizzare le aspettative. Inoltre, la disperata corsa al rendimento di molti investitori istituzionali sostiene artificiosamente il prezzo del debito pubblico, riducendo il valore segnaletico dei tassi.

L´azione delle banche centrali, dunque, è solo un sano richiamo alla realtà. Non prelude a un mercato orso come quello di sei anni fa; né ci espone al rischio di una recessione da eccesso di restrizione, in stile anni ottanta. La posizione finanziaria delle imprese non è mai stata così solida; e le banche hanno una patrimonializzazione tale da sostenere un´eventuale riduzione del valore degli attivi senza dover contrarre il credito. Ma la festa della liquidità è finita. Dopo la baldoria, non cadremo nella depressione: torneremo alla vita di tutti i giorni. Prima, però, il premio per il rischio nei mercati deve tornare a livelli medi storici: oggi è ancora troppo basso. Qualche investitore rimarrà col mal di testa: ma per questo basterà l´aspirina.

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