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ATTENTI ALL’ IRAN CON L’ ATOMICA

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(WSI) – Monopolizzata dal day after di Londra e dalla guerra delle responsabilità che sovrasta talvolta la guerra al terrorismo, nei giorni scorsi la nostra attenzione ha lasciato poco spazio a un evento cruciale: la visita in Iran del capo del governo provvisorio iracheno Ibrahim al-Jafaari, la prima di tale livello da quando, un quarto di secolo fa, l’attacco di Saddam costò ai due Paesi otto anni di conflitto e un milione di morti.

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La storia è ricca di riconciliazioni quasi quanto lo è di guerre, ma la ripresa del dialogo politico tra Bagdad e Teheran rientra piuttosto nella categoria delle scommesse ad altissimo rischio: capace di contribuire alla stabilità dell’area, ma in grado anche di accentuarne la volatilità complicando ulteriormente la lotta al terrorismo.

Al-Jafaari ha portato con sé in Iran un bagaglio pesante. Benché provvisorio, il suo governo è il primo legittimato da elezioni dopo il rovesciamento di Saddam, è il primo a rappresentare la maggioranza sciita irachena, ed è anche il primo a gestire un difficile processo costituente. Credenziali, queste, che non sono fatte per dispiacere agli iraniani. Ma nessuno ignora che sulla buona disposizione di Teheran pesa l’elezione il mese scorso dell’ultraradicale Mahmud Ahmadinejad, e pesa, soprattutto, la determinazione del nuovo presidente a proseguire la corsa dell’Iran verso il nucleare.

Diventano intuibili, allora, i due possibili e opposti sbocchi di una partita appena cominciata. Nello scenario positivo l’Iran concluderà con i negoziatori europei un’intesa per l’uso soltanto civile dell’energia atomica, e favorirà il recupero dei sunniti da parte degli sciiti iracheni tagliando l’erba sotto i piedi al terrorismo locale (ne risulterebbero agevolate anche le exit strategies delle forze straniere). Nello scenario negativo l’accordo nucleare non andrà in porto, si farà più duro il confronto tra Teheran e gli euro-americani, e in Iraq sarà facile gettare olio sul fuoco di una guerra civile strisciante già in atto e già capace di portare alla frammentazione del Paese.

E’ troppo presto per dichiarare favorita l’una o l’altra possibilità. Ma di certo sappiamo oggi che buona parte del mondo arabo (a maggioranza sunnita) si inquieta dell’ipotetica nascita di un «blocco sciita» iracheno-iraniano. Di certo sappiamo che un Iran con l’atomica potrebbe far scattare una risposta militare e appiccare così l’incendio all’intera regione. Di certo dovremmo sapere, senza bisogno di aspettare i rapporti di Chatham House (o della Cia) e gli scontati dinieghi di Blair, che il terrorismo di matrice islamica c’entra con l’Iraq: anche se è nato prima dell’attacco a Saddam, anche se colpisce nel mucchio e ha strategie sofisticate, è la guerra in Iraq a procuragli un’insperata capacità di reclutamento, di addestramento e di motivazione. Di certo sappiamo che i burattinai degli stragisti seguiranno con attenzione l’evolversi dei rapporti Iraq-Iran, ben sapendo che dai seguiti del simbolico viaggio di al-Jafaari possono venire buone o cattive notizie per la loro causa sciagurata.

Quanto basta per capire che anche la lotta anti-terrorista deve fare un salto di sofisticazione, guardando insieme a un Iraq e a un Iran da sempre sospesi tra inimicizia e complicità.

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