Società

ANCHE PECHINO
HA PAURA
DELLA BOLLA

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(WSI) – Sull’economia della Cina, con cui ha un deficit dei conti correnti record, 130 miliardi di dollari circa, l’America incomincia a nutrire qualche dubbio. C’è chi vede nel colosso asiatico non soltanto il futuro rivale economico, prima ancora dell’Ue, ma anche un pericolo per l’attuale stabilità finanziaria internazionale. Si parla di una «bolla cinese», una super-tigre che potrebbe crollare all’improvviso come le tigri Sud Corea, Thailandia e altre crollarono nel ’97, ma con conseguenze ben più gravi date le sue dimensioni.

Forse, dichiara l’economista Morris Goldstein, è un eccesso di pessimismo o d’invidia ma non è del tutto ingiustificato.
Il giudizio «contro» scaturisce dal ritmo in teoria insostenibile dell’espansione economica cinese. Da qualche mese in America è aumentato il numero degli economisti ed esperti che ammoniscono che, a causa sua, la Cina potrebbe essere a rischio. A loro parere, il miracolo economico (anche l’anno scorso il prodotto interno lordo crebbe del 9,5%) non ha fondamenta molto solide: numerose grandi banche sono pericolanti, una parte dell’edilizia è nelle mani degli speculatori, e i consumi non crescono a sufficienza. Ieri il New York Times ha denunciato un’altra debolezza: gli investimenti pubblici in infrastrutture sono al livello di guardia, il 45% del Pil.
Gli ammiratori di Pechino ribattono che lo Stato in Cina fa quello che fece in America negli anni 50: creare una rete stradale – nel 2020 supererà quella americana – e un sistema di centrali elettriche, fabbriche e miniere per promuovere il «boom» economico anche nelle province emarginate. Ma i critici osservano che l’offerta potrebbe superare presto la domanda, e comunque questi investimenti rendono sempre meno. Citano l’economista Xu Xiaonian della China Europe Business School di Shanghai: «Nel ’90, un dollaro investito in infrastrutture dava il 50% di reddito, adesso dà il 20%. Secondo Nicholas Lardy dell’Institute of International Economy, nessun Paese ha mai investito in infrastrutture quanto la Cina: il Giappone sfiorò il 40% del Pil ma è sceso al 30%; l’India si tiene sotto il 25%; l’America – che punta sui consumi come motore dell’economia – investe il 15%. Lardy è tuttavia d’accordo con Pechino che l’economia cinese debba crescere del 7% o più annuo per contenere la disoccupazione ed evitare disordini sociali, e che industrializzazione e modernizzazione richiederanno più anni di quanto si pensi: «I parametri normali non valgono».
La leadership cinese ha dimostrato di essere consapevole dei potenziali squilibri, passando da un aumento del 27% nel totale degli investimenti statali nel 2004 a uno del 16% nel 2005, invitando sempre più capitali privati stranieri, incentivando i consumi interni, tutti indizi di un graduale cambiamento di strategia. Ma non ha abbandonato l’ancoraggio dello yuan al dollaro, come richiesto dall’amministrazione Bush, perché significherebbe rivalutarlo e nuocere alle esportazioni, né ha accolto gli altri suggerimenti americani. Il problema di Taiwan esploso di recente ha reso più improbabile che la Superpotenza di domani vada incontro a quella di oggi.

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