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ALERT: SECONDA CRISI BANCARIA IN VISTA

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*Questo documento e’ stato preparato da Alessandro Fugnoli, strategist di Abaxbank ed e’ rivolto esclusivamente ad investitori istituzionali ovvero ad operatori qualificati, così come definiti nell’art. 31 del Regolamento Consob n° 11522 del 1° luglio 1998 e successive modifiche ed integrazioni. Le analisi qui pubblicate non implicano responsabilita’ alcuna per Wall Street Italia, che notoriamente non svolge alcuna attivita’ di trading e pubblica tali indicazioni a puro scopo informativo. Si prega di leggere, a questo proposito, il disclaimerufficiale di WSI.

(WSI) – La Spagnola uccise Max Weber nel giugno del 1920. Weber fu una delle ultime vittime. La pandemia cessò infatti in agosto. Egon Schiele fu invece tra i primi ad andarsene ventottenne, nell’ottobre del 1918, tre giorni dopo la moglie Edith. La Spagnola era partita in marzo come una normale influenza, ma all’improvviso in agosto varianti estremamente aggressive del virus erano comparse simultaneamente in Bretagna, in Africa e a Boston. Pochi giorni dopo Schiele se ne andò Apollinaire e la settimana dopo toccò all’Edmond Rostand che aveva messo in versi la vita di Cyrano de Bergerac.

Insieme a loro finirono i loro giorni per la Spagnola il presidente del Brasile, il primo ministro del Sud Africa e la regina delle isole Tonga. Roosevelt riuscì invece a guarire e a cambiare il corso della storia negli anni Trenta e Quaranta.

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Le pandemie, come le bolle finanziarie, hanno tempi lunghi di formazione e, una volta scoppiate, procedono a ondate e si dispiegano su tempi lunghi. La Spagnola del 1918-1920 e la Grande Depressione del 1929-1932 sono i perfetti benchmark della catastrofe sanitaria ed economica dell’era contemporanea. Da decenni ogni crisi economica viene paragonata al ’29 e ogni focolaio pandemico al ’18. Per 24 ore, tra lunedì e martedì, il mondo ha pensato all’ipotesi di un ’29 e di un ’18 congiunti. Di per sé, scrive Willem Buiter, una pandemia costituisce uno shock negativo da offerta (la forza lavoro si riduce per malattia o morte) e da domanda (malati e morti consumano meno). La depressione, dal canto suo, è uno shock da domanda.

L’ipotesi di un ’29 e di un ’18 congiunti ha fatto perdere alle borse il 3 per cento, cioè niente. Il fatto è stato ancora più notevole se si considera che i mercati venivano da sette settimane di rialzo senza interruzioni e da un più 30 per cento dai minimi del 9 marzo. Se il profilarsi improvviso di una pandemia non viene preso come pretesto per una correzione bisogna allora aspettare un asteroide lanciato verso la Terra, ma ne è appena passato uno in febbraio e se ne è andato.

L’impressionante robustezza dei mercati si nutre ovviamente di sé stessa, ma non solo. Il Pil americano del primo trimestre mostra che la recessione (o quanto meno la sua parte successiva a novembre) non è colpa dei consumatori (più 2.2 per cento i consumi) ma delle aziende che non producono perché vogliono prima eliminare le scorte in eccesso, anche perché le banche non gliele finanziano (meno 3 per cento il contributo negativo delle scorte).

Oltre alla forza dei consumi americani i mercati festeggiano il brusco rallentamento della contrazione del Pil europeo che si profila per il secondo trimestre e la brillante riaccelerazione cinese in corso da inizio marzo.

Oltre a questo, naturalmente, ci sono gli utili sorprendentemente positivi del primo trimestre, dovuti in parte a una contabilità con gli occhiali rosa da parte delle banche ma anche ai risultati delle feroci ristrutturazioni nel resto dell’economia. Aggiungiamo infine l’esito non traumatico dello stress test sulle banche americane, severo quel tanto che basta a non far sospettare la promozione politica per tutti, e abbiamo gli ingredienti per indurre i mercati a pensare che il peggio è veramente finito su tutta la linea e che da qui in avanti si camminerà in un giardino fiorito e profumato. Perfino i produttori di automobili, sgravati di debiti previdenziali e obbligazionari e debitamente incentivati, sembrano avere davanti un futuro luminoso.

C’è naturalmente una versione più mesta di quanto sta accadendo. Quello che si profila è semplicemente un miniciclo delle scorte. In questi quattro mesi passati le si è ridotte con furore, ma da qui in avanti la produzione dovrà riprendere non solo per soddisfare i consumi rimasti stabili (o addirittura cresciuti come in America) ma anche per ricostituire un minimo fisiologico di scorte. Attenzione, però. A consumi stabili (e con la disoccupazione ancora in crescita per qualche mese è difficile che risalgano molto) corrisponderà prima o poi una produzione di nuovo stabile (dopo la ripresina da scorte). Gli investimenti produttivi delle imprese, dal canto loro, rimarranno a lungo depressi.

Quanto alla spesa pubblica, fanno notare i più mesti, agli aumenti a livello federale (in America) o statale (nel resto del mondo) corrisponderanno tagli ulteriori nella spesa degli enti locali (State and Local Finances: Delaying the Inevitable, Goldman Sachs, 17 aprile). Il mercato immobiliare, d’altronde, sta vivendo una stabilizzazione più apparente che reale dovuta alla moratoria sui pignoramenti, che sta per scadere.

Di mestizia in mestizia si può notare che il sentiment ormai compattamente rialzista non è di per sé un elemento favorevole. Che il sentiment sia ormai tutto da una parte lo prova clamorosamente la lettura che si dà dei movimenti del petrolio. Quando scende ci si rallegra per lo stimolo che darà ai consumi e quando sale ci si rallegra ancora di più perché è la prova della ripresa della domanda.

Peccato che la domanda mondiale finale di greggio stia continuando inesorabilmente a scendere. In America, in Europa e in Asia. E non può che essere così in un mondo che sta ancora contraendosi. Se il prezzo del greggio (e quello del rame) salgono è perché la Cina, intelligentemente, sta usando una parte dei suoi dollari per accumulare scorte. Le altre materie prime, quelle su cui la Cina non interviene, sono più in basso che a inizio anno.

Tutti questi mesti ragionamenti avranno un giorno il loro peso. Per il momento, tuttavia, la carica dei bisonti che devono ricoprire gli short e quella ancora più travolgente dei sottopesati che devono riportarsi in pari si saldano con quella in partenza di quanti ritengono che ora o mai più sia il momento per mettersi strategicamente lunghi per i prossimi anni di bull market.

Fra qualche tempo, probabilmente presto, ai bisonti famelici di azioni verranno date in pasto gigantesche razioni di aumenti di capitale, in particolare da parte delle banche. La digestione di questi aumenti (un trilione abbondante solo per le banche americane, altrettanto per l’Europa) rallenterà la corsa, ma perché gli aumenti abbiano inizio è bene che il recupero azionario faccia ancora un po’ di strada.

Nel breve solo un salto di qualità della pandemia può arrestare le borse. Quello che vediamo, influenza a parte, è un movimento a w, con un rialzo ancora per qualche settimana e un ritracciamento estivo, seguito da un rialzo più lento più avanti. Questa w minuscola di borsa potrebbe essere parte di una W maiuscola più ampia di ciclo economico. Con la tarda estate 2009 come punto d’inversione, la crescita potrebbe assumere segno positivo fino a tutto il 2010 (anche in vista delle elezioni americane di mid term) con l’aiuto di un altro pacchetto fiscale da varare a fine anno o, in sua assenza, di ulteriori monetizzazioni di debito da parte della Fed.

Il 2011 o il 2012 potrebbero invece vedere una nuova decelerazione. Le cause potrebbero essere due. Della prima si parla molto, moltissimo (iperventilazione, la chiama Jan Hatzius), ed è la possibile impennata dell’inflazione, unita magari a un impennata dei tassi reali, che costringerebbe la Fed a una brusca frenata. Il tema, dicevamo, è già bollente adesso, se si pensa che la Fed, nell’ultimo comunicato, ha dovuto mandare un messaggio in codice ai mercati obbligazionari per rassicurarli (il messaggio è che gli acquisti programmati di titoli rimarranno quelli già annunciati, che in traduzione significa che la Fed ha già finito di premere sempre di più sull’acceleratore ed è anzi molto sensibile al grido di dolore che si leva dalla parte lunga della curva governativa).

A noi sembra che al momento il problema sia sopravvalutato. La Fed ogni tanto dà qualche soddisfazione ai bond vigilantes e mostra di essere capace di frenare all’occorrenza. L’ha fatto in gennaio vendendo la carta commerciale accumulata e contraendo il suo bilancio (distruggendo base monetaria) e lo fa adesso. Saremo maliziosi ma non possiamo fare a meno di notare che gennaio e aprile sono stati periodi di bull market in cui i mercati hanno cominciato a mettersi in testa che il peggio era alle spalle. Non appena questa sensazione di euforia sarà svanita, dovesse occorrere, la Fed riprenderà a creare moneta.

Il fatto che il problema sia sopravvalutato adesso non significa comunque che non si porrà sul serio fra un paio d’anni. Insieme a un altro, del quale invece si parla pochissimo, se non per niente. E’ l’ipotesi di una seconda crisi bancaria, avanzata da Adam Posen. Posen non è uno qualsiasi, è un’eminenza grigia ex Fed che fa da consulente di molte tra le maggiori banche centrali.

La sua idea è che quello che si sta facendo è una sistemazione raffazzonata dell’attivo tossico delle banche, accompagnata (e qui viene il peggio) da una giapponesizzazione dei comportamenti per quanto riguarda gli impieghi tradizionali. Le banche giapponesi, come è noto, continuarono per anni a rifinanziare le imprese malandate per non fare emergere perdite a bilancio ed evitarono d’altra parte con cura di erogare credito fresco alle imprese sane. Con il risultato, alla fine, di un deterioramento continuo dell’attivo, con necessità finale di nazionalizzazioni complete.

Al di qua di queste sfide terribilmente impegnative per i prossimi anni, suggeriamo di godere di questa fase irripetibile in cui anche le notizie macro negative, alla facile condizione che non siano ancora più negative di quelle dei mesi appena trascorsi, diventano positive agli occhi dei mercati. Un giorno, quando le valutazioni saranno più generose di adesso, la vulnerabilità dei mercati sarà maggiore, ma ai livelli attuali, rischiando, non si rischia poi così tanto.

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