Società

TREMONTI-GANDHI CONTRO LE TIGRI
DI ARCORE

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(WSI) –
Giulio, Giulio, Giulio. Attenti all’errore. Il coro ieri riservato a Tremonti dai presenti all’affollatissimo confronto con Piero Fassino, al Meeting di Rimini, non era una dichiarazione di voto. Era il gradimento caldo del Movimento verso la svolta accentuatamente “valoriale” che Tremonti ha impresso ai suoi affilati ragionamenti.

È il Tremonti-Gandhi che dice sì alla protesta fiscale ma con la stessa decisa misura con cui il Mahatma attraverso la Marcia del sale portò l’India all’indipendenza, la cifra anche simbolica della svolta. È la svolta che trovate nella sua lezione pronunciata nello scorso luglio a giovani di Forza Italia, in quei cinque punti autorità, responsabilità, valore, identità, ordine – nei quali l’ex ministro dell’Economia sintetizza la nuova frontiera da opporre al mercatismo impersonale, alla fuga dalle scelte, all’indifferenza verso persona e famiglia, alla finta integrazione che in nome del multiculturalismo leva senso alle comunità, perché le contrappone in una lotta a violare la legge.

Ora, chi qui scrive non nasconde di conoscere e stimare molto Tremonti da anni, di considerarlo da sempre un patrimonio intellettuale raro, nel panorama della politica italiana. Come non intende celare al lettore che da anni gli capita anche di incrociare talvolta le lame con il professore: e non certo sul tramonto della sovranità territoriale e fiscale dello Stato, a favore della dematerializzazione del capitale e dell’erraticità della tassazione che della globalizzazione sono entrambi prodotti, come Tremonti scriveva vent’anni fa.

A dividerci, sulle sfumature, è il suo no deciso al mercatismo, come fosse un’ideologia che nessun vero liberista ha mai praticato. Tanto che anche nell’intervista tremontiana al Corriere della sera, a un’analisi sulla crisi finanziaria in atto, assolutamente condivisa – nessuno ancora davvero ammette che occorrono coefficienti di stabilità e scritture patrimoniali adeguate al rischio di prodotti finanziari sintetici sfuggiti sin qui al controllo, e che improvvisamente non han prezzo sul mercato – si accompagnano poi giudizi sulla finanza fine a se stessa che il mercatista che qui scrive non condivide, visto che lo spalmamento dei rischi degli hedge fund ha consentito al mondo una fase di sviluppo senza precedenti, e dunque il problema è come invigilarli, non come scomunicarli.

Ma queste sono quisquilie tecniche. La svolta valoriale è assai più importante. È analoga a quella che ha condotto Sarkò alla vittoria in Francia. È ciò che alla Casa delle Libertà è spesso stato rimproverato di non avvertire o di non coltivare, in nome di prevalenti interessi materiali o giudiziari, se non di veri e propri animal spirits. Quel che mette più conto capire è che nella parabola di Tremonti-Gandhi c’è una metafora dei tempi presenti assai più stringente di quel che sembri.

Passato dagli studi d’avvocato ad abbeverarsi rabdomanticamente all’anarchismo cristiano di Tolstoj come al Bahagavad Gita indù e al saggio sulla disobbedienza civile di Henry David Thoreau, alla fine il padre nobile della non violenza e della resistenza civile indiana portò sì il suo Paese a compiere il sogno dell’indipendenza, rispetto al dominio imperiale britannico. Ma fu sempre, e alla fine quasi per vent’anni dopo ancora, il fine politico Pandit Nehru a guidare il Paese oltre che il partito del Congresso. Ed è fin troppo evidente, che il Tremonti-Gandhi si trova e si troverà ancora a fare i conti con Berlusconi-Nehru.

Com’è altrettanto evidente che non solo nella storia indiana, i Nehru carismatici tendono ad avere una concezione “cooptativa” della leadership politica. Passata non a caso in India dal Pandit alla figlia, Indira Gandhi. Ed eccoci all’Indira che anche qui – nella concitata e animatissima estate politica 2007 del Partito delle Libertà – è pronta dietro l’angolo, ad affacciarsi reclamando il titolo carismatico dell’eredità alla leadership politica. Massì, avete capito benissimo, stiamo parlando di donna Vittoria Michela Brambilla.

E per proseguire nel pantheon indiano dei numi politici della resistenza antibritannica, ecco che per completare il quadro Tremonti-Gandhi è stato lui, sin da tempi lontani anche nei momenti più difficili, il collante tra Berlusconi e Bossi. Ed ecco che anche Umberto Bossi ha il suo analogo nell’India occupata e riscattata dalle campagne del Mahatma. Si avvicina per molti versi a quel Mohamad Jinnah che con Nehru non andava mai d’accordo, perché gli rimproverava metodi troppo legalitari verso gli occupanti. Lui preferiva metodi spicci. E alla fine non riuscì a sottrarsi al compimento del suo vero sogno: che non era tanto quello di vedere un’India indipendente, quanto quello della secessione. E nacque il Pakistan, seguendo Jinnah che è il suo storico fondatore, in nome della secessione dei diversi, esattamente come tante volte anche qui da noi la Lega torna a chiedere.

Dite quello che volete, ma Giulio Tremonti è uomo di grande finezza. Ha assolutamente chiaro che abbracciare l’esempio di Gandhi significa anche fare i conti con tutte le Tigri di Arcore. Con Prodi nella parte dell’ultimo vicerè dell’India, quel lord Mountbatten che ammainerà tristemente per l’ultima volta a Delhi l’Union Jack. Prima che, anni dopo, l’Ira lo faccia saltare in aria.

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