Economia

Risparmiatore italiano: un portafoglio sempre più globale

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di Gloria Valdonio

Diversificato e internazionale: ecco il profilo del risparmiatore italiano attraverso l’analisi degli investimenti indiretti

Il risparmio non è neutro. Che il risparmiatore ne sia consapevole o meno, ogni investimento – anche se abbigliato da fondo di investimento, gestione patrimoniale, unit linked o altro, stimola economie, finanzia aziende e punta su specifici mercati e settori. Fare emergere la destinazione di ogni investimento è uno degli obiettivi della consapevolezza finanziaria che si vuole accendere nel cittadino europeo. In quest’ottica è importante lo sforzo di analisi contenuto nell’occasional paper della Banca d’Italia, intitolato “Gli investimenti delle famiglie attraverso i prodotti italiani del risparmio gestito”, a cura di Andrea Cardillo e Massimo Coletta.

Nello studio si stimano gli investimenti di portafoglio sottostanti i prodotti del risparmio gestito detenuti dalle famiglie italiane, applicando il metodo lookthrough, un criterio di analisi che “guarda attraverso” i prodotti finanziari per mostrare la destinazione finale del risparmio e contestualmente fornire elementi per la valutazione dei rischi a cui sono esposti i risparmiatori. L’analisi ha preso in considerazione il triennio 2014-2016.

Cresce il risparmio gestito…

Quali sono i risultati? La prima evidenza è che l’Italia, nel triennio, si è allineata al resto dei Paesi Ocse in tema di scelte di investimento e soprattutto di diversificazione. Dal 2012 le famiglie italiane sono tornate ad aumentare il peso degli strumenti del risparmio gestito: polizze assicurative, quote di fondi di diritto italiano e di fondi pensione (sono esclusi dall’analisi i fondi chiusi di diritto italiano, i fondi di diritto estero per mancanza dei dati necessari e le gestioni patrimoniali ndr). A fine 2016 questi strumenti erano la componente più importante della ricchezza finanziaria delle famiglie italiane con una quota del 34%, contro il 32% di circolante e depositi. Ne consegue che nel triennio 2014-16 il portafoglio sottostante i prodotti italiani del risparmio gestito detenuti dalle famiglie italiane è aumentato del 12%, da 712 miliardi a quasi 800 miliardi di euro e a fine 2016 rappresentava circa il 20% della ricchezza finanziaria totale.

…e la quota di investimenti esteri

La seconda evidenza è che è aumentato il peso delle obbligazioni e delle azioni emesse da intermediari e imprese esteri: nel triennio c’è stata una ricomposizione a favore delle quote di fondi comuni esteri (quasi interamente ascrivibile ai fondi di diritto lussemburghese) e a fine 2016 le famiglie italiane investivano indirettamente nelle società non finanziarie francesi e statunitensi più che nell’insieme delle società non finanziarie italiane.

“La composizione del bilancio finanziario delle famiglie italiane è divenuta più simile a quella delle famiglie delle principali economie dell’area dell’Ocse”, è il commento di Alessandro Fugnoli, strategist di Kairos. “Ci sono tendenze strutturali lente che vanno verso una maggiore diversificazione, anche se i patrimoni italiani sono già diversificati da molto tempo – aggiunge Fugnoli -. La crisi che l’Italia ha attraversato, unita alla percezione di fragilità del Paese dovuta al debito pubblico, hanno indotto i risparmiatori italiani a diversificare già da diverso tempo come si evince dagli sbilanci di Target2, la piattaforma europea per il regolamento dei flussi finanziari tra i singoli Paesi. Reti e gestori hanno cercato di cogliere le opportunità che i mercati esteri, negli anni scorsi, offrivano in misura maggiore”.

I fondi comuni italiani

Nel dettaglio, nel triennio l’investimento in quote di fondi ha registrato un aumento significativo, dal 18 al 26% del portafoglio, che si è concentrato sulle quote dei fondi esteri. L’elemento più significativo è che l’esposizione indiretta delle famiglie verso l’estero attraverso i fondi, che era già prevalente nel 2014, a fine 2016 ha superato il 61%.

“Questa composizione è coerente con la minore crescita che l’Italia ha avuto rispetto al resto del mondo negli anni post 2008, con un mercato dei capitali ancora poco sviluppato e una ridotta capitalizzazione del mercato borsistico”, commenta Fugnoli.

Per ciò che concerne gli asset in portafoglio, la contrazione della quota obbligazionaria registrata dal 2014 è stata determinata quasi interamente dalla flessione dei titoli pubblici, passati dal 48 al 39% e, sebbene i titoli italiani prevalgano in questo caso su quelli esteri, la differenza tra le due quote si è ridotta nel periodo preso in considerazione dallo studio da 10 a 3 punti percentuali.

“Questa analisi è in linea con i comportamenti degli investitori, ma anche dei risparmiatori, successivi alla crisi del 2011, quando ci fu una veloce caduta dei titoli italiani e una corsa ad acquistare titoli tedeschi e a vendere Bot e Btp”, commenta Fugnoli.

Il riscatto dei Pir

Quanto all’investimento indiretto in azioni attraverso i fondi, è rimasto pressoché stabile nel periodo in esame, intorno al 12%, con le azioni estere che però rappresentano oltre l’80% della quota destinata all’equity. L’analisi rileva anche la destinazione degli investimenti azionari esteri, diretti prevalentemente verso società non finanziarie quotate, residenti negli Stati Uniti, in Francia, in Germania e Uk.

“Per quanto riguarda il mercato azionario, il risparmiatore italiano si è allineato agli indici nella ricerca del miglior rendimento: la Borsa di Milano, un po’ latitante nei portafogli dei fondi, è quella che ha recuperato meno rispetto ad altre borse estere e i fondi ovviamente investono su mercati in ripresa”, spiega Fugnoli che aggiunge: “Forse la diversificazione obbligazionaria non ha portato risultati brillanti ma per quanto riguarda l’equity, il risparmiatore italiano ha iniziato a tornare sull’azionario, dopo un periodo in cui è stato prerogativa dei grandi patrimoni”.

Secondo lo strategist, questa riduzione dell’Italia nei portafogli dei fondi sarebbe stata mitigata dalle reti attraverso i Pir (Piani individuali di risparmio), che negli ultimi due anni avrebbero riorientato gli investimenti nel nostro Paese e riportato capitali sulla Borsa di Milano, permettendole di recuperare in parte il divario, soprattutto nel 2017. “Si tratta di un’iniziativa virtuosa e non lesiva di interessi europei. E soprattutto, anche se non sono ancora numerosi, i Pir rappresentano un flusso di danaro che continua nel tempo”, aggiunge Fugnoli. Il trend del prodotto introdotto lo scorso anno è senz’altro positivo: se a inizio 2017 si stimava in 2 miliardi di euro la raccolta nel corso dell’anno, il bilancio a fine dicembre è di 10-11 miliardi. Un vero e proprio boom.

I fondi pensione

Quanto ai fondi pensione, le risorse da loro gestite sono aumentate da 86 a 95 miliardi di euro nel triennio, ma la loro incidenza sulla ricchezza finanziaria totale delle famiglie rimane molto contenuta, pari al 2,3% a fine 2016.
La composizione per tipologia di strumento e per residenza della controparte degli investimenti detenuti indirettamente dalle famiglie italiane tramite i fondi pensione, è rimasta sostanzialmente stabile nel triennio: i titoli di debito rappresentano la gran parte del portafoglio totale gestito, il quale è investito prevalentemente all’estero.

In conclusione, se si escludono i titoli pubblici, tramite l’asset allocation adottata dai gestori dei fondi le famiglie italiane presentano un’esposizione elevata verso l’estero e modesta verso l’economia italiana. Come spiega la Covip (Commissione di vigilanza sui fondi pensione):

“Tra le cause che fin qui possono aver ostacolato gli investimenti in titoli di imprese italiane figurano: la replica di benchmark di mercato diversificati su scala internazionale nei quali il peso assegnato all’Italia è marginale; lo scarso sviluppo dei mercati dei capitali privati e il numero limitato di imprese quotate; infine le difficoltà nella valorizzazione e nella liquidabilità di strumenti non quotati”.

“Può colpire che i fondi pensione investano in titoli tedeschi e non italiani – commenta Fugnoli -. Il fondo pensione, nel mondo anglosassone, è sempre stato visto come strumento per orientare investimenti sul mercato interno ma da noi non è partito in questo modo. Se la componente di risparmio gestito in Italia è bassa rispetto all’estero, la causa è proprio la scarsa penetrazione dei fondi pensione. Il motivo è che il pilastro pubblico della previdenza è ancora percepito come relativamente sicuro e sufficiente, anche se è chiaro che nel tempo ci sarà un’erosione e che sarà inevitabile un forte sviluppo dei sistemi pensionistici complementari” prosegue Fugnoli, che conclude: “In generale il periodo 2014-2016 è una fase intermedia di un ciclo iniziato nel 2009 che terminerà, auguralmente, dopo il 2020, e riflette il miglioramento dei mercati senza evidenziare marcati spostamenti di portafoglio, i quali avvengono tipicamente nei momenti iniziale e finale di un ciclo”.

L’articolo integrale è stato pubblicato sul numero di gennaio del mensile Wall Street Italia