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RECESSIONE: IN AMERICA FINIRA’ TRA POCHE SETTIMANE. IN EUROPA DOPO

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*Questo documento e’ stato preparato da Alessandro Fugnoli, strategist di Abaxbank ed e’ rivolto esclusivamente ad investitori istituzionali ovvero ad operatori qualificati, così come definiti nell’art. 31 del Regolamento Consob n° 11522 del 1° luglio 1998 e successive modifiche ed integrazioni. Le analisi qui pubblicate non implicano responsabilita’ alcuna per Wall Street Italia, che notoriamente non svolge alcuna attivita’ di trading e pubblica tali indicazioni a puro scopo informativo. Si prega di leggere, a questo proposito, il disclaimer ufficiale di WSI.

(WSI) – La recessione americana finirà fra poche settimane, qualche mese prima di quella europea. Sarà anche, alla fine, molto meno profonda. Fatto 100 il Pil d’inizio 2008, alla fine del 2010 quello americano si troverà a 99.2, mentre quello europeo sarà a 95.7 (elaborazione su stime Ocse). Certo, la demografia aiuta l’America di un 1 per cento all’anno, ma il distacco, da qualunque parte lo si guardi, sarà cresciuto.

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Nonostante questo l’America vive quello che sta accadendo in modo soggettivamente più doloroso e acuto. La sensazione di stare rivivendo giorno dopo giorno la Grande Depressione, giusta o sbagliata che sia, è più diffusa.
Nessuno, in Germania, in Francia o in Italia va a cercarsi quello che stava succedendo nel giugno 1930 al dodicesimo mese della crisi. Di che cosa si discuteva? Che idea c’era di quello che sarebbe successo nei tre mesi o nei tre anni successivi?

In Europa pensiamo al mondo dei nostri nonni (o bisnonni) come a qualcosa di alieno. In America, per contro, il raffronto è continuo. Da tre settimane un blog (News from 1930), curato da un anonimo appassionato di storia, riassume ogni giorno notizie, dibattiti ed editoriali del Wall Street Journal di 79 anni fa.

L’editoriale del 23 giugno 1930, ad esempio, è intitolato “La Svolta è Vicina”. Qualche giorno prima, del resto, gli economisti della National City Bank (che oggi si chiama Citibank) avevano affermato lo stesso concetto, mentre un commento di un banchiere di Cleveland si diffondeva sulla probabilità di una crisi a U piuttosto che a V.

Su un piano più formale e accademico, i grafici di Barry Eichengreen di Berkeley (disponibili su Vox) che sovrappongono in modo impressionante indicatori macro e di mercato del 1930 e del 2009 hanno avuto finora più di 100mila visite. Nei giorni scorsi è uscito l’aggiornamento a giugno e la sovrapposizione rimane perfetta per gli indicatori macro, mentre il mercato azionario, al dodicesimo mese di crisi conclamata, era andato meglio allora.

L’unica cosa che è cambiata, dice Eichengreen, è la risposta monetaria, questa volta molto più aggressiva e veloce. E’ questa risposta che ci fa essere oggi tutti fiduciosi del fatto che il peggio sia veramente passato. Perfino i più pessimisti si concentrano al momento sulla possibilità di una ricaduta a fine 2010 ma non mettono in discussione la stabilizzazione in corso e la (modesta, certo) ripresa a partire dall’autunno.

L’ultimo Fomc conferma il messaggio. La risposta monetaria sarà all’altezza della situazione e i tassi ufficiali rimarranno a zero “per un periodo esteso”. Nello stesso giorno la Bce, che formalmente rifiuta il quantitative easing se non in dosi omeopatiche (i 60 miliardi di covered bond), compie una colossale operazione di rifinanziamento e ne prolunga la durata media.

Formalmente è ancora una semplice immissione di liquidità, ma più si allunga la durata di queste operazioni più gli effetti pratici vanno ad assomigliare a quelli del credit easing della Fed. Il Fomc manda un secondo messaggio in codice (anche questo espansivo) con le tre parole “sostanziali risorse inutilizzate”.

Per contestualizzare queste parole bisogna ricordare che negli ultimi tempi si sono alzati i toni del dibattito sul fatto che esistano o meno queste risorse. Se esistono, se cioè è vero che ci sono disoccupati pronti a lavorare, case vuote pronte a essere abitate e impianti fermi pronti a essere rimessi in moto, allora non c’è motivo per preoccuparsi dell’inflazione il giorno in cui riprenderà la domanda.

Se invece non esistono, se cioè i disoccupati dopo qualche tempo si dequalificano, le case vuote cadono in rovina e gli impianti fermi arrugginiscono, allora la domanda in ripresa non incontrerà offerta sufficiente e produrrà inflazione. Il dibattito ha lambito recentemente la stessa Fed. La Fed di San Francisco ha pubblicato uno studio secondo cui l’entità di queste risorse è molto più piccola di quello che si pensa. Lo studio non impegna la Fed nazionale (che come abbiamo visto è di parere opposto) ma ha sollevato un vespaio di polemiche proprio nei giorni di massima psicosi inflazionista sui mercati.

Il 5 giugno, al massimo d’intensità della psicosi, i Fed Funds a termine
prezzavano due rialzi dei tassi entro dicembre e addirittura quattro per marzo. La sera dell’ultimo Fomc, nonostante il comunicato, i diffidentissimi mercati pensano ancora a un rialzo abbondante per dicembre e due per marzo. Ne ricaviamo che c’è ancora spazio per andare lunghi di Fed Funds a termine.

Il terzo messaggio del Fomc è il non avere modificato tempi e quantità degli acquisti di Treasuries e mutui, quando una parte del mercato si aspettava invece un’intensificazione delle operazioni di acquisto, impropriamente definite di monetizzazione del debito pubblico. In questo caso il Fomc bilancia in parte il segno espansivo dei primi due messaggi e mostra di non essere insensibile alle ansie del mercato sull’uscita inflazionistica dalla crisi fiscale.

In pratica la Fed cerca una soluzione equilibrata. Vuole mantenere una politica espansiva senza però spaventare inutilmente i bond vigilantes. Questo atteggiamento favorirà nei mercati un graduale recupero dei Treasuries.

Possiamo inquadrare questo recupero in quello che tentativamente vorremmo chiamare il paradigma della Redistribuzione. Dopo i Germogli di metà marzo – metà giugno, la Redistribuzione estiva spalmerà una parte dei recuperi dell’azionario e delle materie prime sugli asset lasciati indietro, ovvero i governativi. Non solo quelli lunghi, ma anche i 6, 12 e 24 mesi.

Calmando gli animi sul petrolio e sui bond si eviterà di compromettere la ripresa autunnale, che non sarebbe certo favorita da un rincaro costante della benzina e del tasso sui mutui. Quanto all’azionario, dopo l’ondata di ricapitalizzazioni delle scorse settimane ci si può ben concedere una sosta, che non significa in alcun modo una rivisitazione dei minimi bensì il fluttuare in un trading range.

I corporate bond, che hanno tratto benefici dai Germogli, attraverseranno la Redistribuzione senza problemi. In pratica si avvantaggeranno sia della riduzione dei rendimenti dei governativi sia di un’ulteriore riduzione degli spread di credito. Più avanti, in autunno, il paradigma cambierà nuovamente. L’azionario riprenderà la strada del recupero e i governativi torneranno ad arretrare.

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