di Tiffany Wilding (Pimco)

Le Banche centrali ci portano verso la recessione?

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La scorsa settimana la Banca of England (BoE) è stata la prima tra le principali banche centrali ad ammettere di prevedere una recessione per ripristinare la stabilità dei prezzi. Come ampiamente previsto, la BoE ha effettuato un rialzo dei tassi di 50 punti base, il più grande aggiustamento in un’unica riunione dagli anni ’90. Con una mossa inaspettata, i funzionari della BoE hanno anche rivisto al ribasso le proiezioni sulla crescita del PIL reale e ora prevedono una recessione più profonda che durerà per sette trimestri a partire dal quarto del 2022, con un calo del PIL del -2,2% (tra i valori massimi e minimi).

Le prospettive recessive della BoE non sono state così sorprendenti nel contesto della guerra in Ucraina e dei conseguenti shock europei sulle forniture energetiche che hanno fatto lievitare i prezzi dell’energia a livello globale e peseranno sull’attività economica del Regno Unito, che è un importatore netto di energia. Tuttavia, ciò che ha sorpreso di più è stata la profondità delle prospettive di recessione della BoE e la sua determinazione a utilizzare tutti gli strumenti a disposizione per inasprire la politica nonostante le fosche prospettive di crescita reale.
In particolare, i funzionari della BoE non hanno reagito al mercato che prezza un picco del tasso di riferimento al 3,0% – 125 punti base in più rispetto all’attuale livello dell’1,75%, che già considerano restrittivo, secondo il nostro economista britannico Peder Beck-Friis (il tasso di riferimento è una diretta indicazione delle loro previsioni di crescita recessiva e inflazione). La BoE ha invece enfatizzato il proprio mandato sul livello dei prezzi e si è impegnata a continuare ad agire “con forza” per ridurre l’inflazione, cosa che abbiamo interpretato come indice di un ulteriore aumento dei tassi di 50 pb a settembre. Inoltre, la BoE si è impegnata a proseguire la stretta quantitativa, avviando vendite attive di gilt subito dopo la riunione di settembre. Con un ritmo di circa 10 miliardi di sterline al trimestre, le vendite ridurrebbero le disponibilità di gilt di circa 80 miliardi di sterline al trimestre, se si includono i rimborsi che non saranno reinvestiti.

Cosa fanno le altre banche centrali

Finora la valutazione di una politica appropriata da parte delle altre banche centrali è stata più favorevole, nonostante i recenti aggiustamenti dei tassi fuori misura. Le comunicazioni dei funzionari della Banca Centrale Europea (BCE) suggeriscono l’intenzione di riposizionare la politica in uno stato neutrale (non restrittivo), che stimiamo intorno all’1,5%. Anche la Bank of Canada e la Federal Reserve hanno dichiarato che una politica leggermente restrittiva è giustificata, ma continuano a prevedere un’inflazione moderata con uno o due anni di crescita inferiore al trend (circa il 2%) invece di una contrazione dell’attività reale.

Tuttavia, poiché l’inflazione è attualmente un fenomeno tanto globale quanto specifico per un Paese, le azioni della BoE sollevano la questione di quale sarà la prossima banca centrale ad adottare questo approccio più “energico”, e in particolare se la Fed seguirà il suo esempio. Qualsiasi evoluzione nella strategia della Fed avrà importanti implicazioni non solo per il tasso di riferimento terminale, ma anche per le condizioni finanziarie globali, date le complesse interconnessioni tra i mercati globali dei capitali, e per l’andamento dei potenziali tagli successivi.
Infatti, il passaggio della Fed all’obiettivo di recessione implica un ritmo più rapido di rialzi a breve termine verso un tasso terminale più elevato, che mette ulteriormente sotto pressione i premi al rischio dei mercati finanziari globali, ma implica anche tagli più rapidi in modo che anche l’inflazione si possa attenuare più rapidamente.

L’evoluzione delle prospettive della Fed dipenderà in modo cruciale dalla persistenza dell’inflazione. Sebbene esista ancora un percorso plausibile verso un atterraggio morbido negli Stati Uniti – ossia una moderazione dell’inflazione senza recessione – la credibilità di questo esito sta rapidamente diminuendo. Come abbiamo scritto negli ultimi Signpost, le prospettive dell’inflazione sono diventate sempre più incerte. La tendenza di fondo dell’inflazione statunitense sembra essersi aggiustata al rialzo negli ultimi mesi, anche se l’allentamento dei prezzi dei generi alimentari e dell’energia modererà l’inflazione primaria a partire dal dato dell’IPC di luglio (pubblicato il 10 agosto). Gli indicatori core dell’inflazione (ad esempio, la media troncata della Fed di Cleveland, l’indicatore dell’inflazione sottostante della Fed di New York, l’indice sulla vischiosità dei prezzi della Fed di Atlanta), che sono migliori predittori dell’inflazione futura, hanno tutti accelerato, con un aumento della profondità e dell’ampiezza delle pressioni inflazionistiche tra le voci del paniere dei prezzi al consumo. Ancora più preoccupante, la dinamica dell’inflazione salariale non è molto diversa.
Anche l’inflazione salariale si è estesa dai settori dei servizi a basso salario e a bassa qualificazione a una serie di settori, occupazioni e livelli di competenza. L’indicatore salariale della Fed di Atlanta, che non soffre delle distorsioni dovute a variazioni nella composizione, è aumentato rapidamente – un comportamento che ricorda una curva di Phillips non lineare e/o un’accelerazione delle aspettative di inflazione. Inoltre, ciò è avvenuto nonostante una recessione della produttività, il che implica che il costo unitario del lavoro è aumentato in modo sostanziale, cosa che le aziende vorranno compensare aumentando i prezzi per mantenere i margini. L’inflazione del costo unitario del lavoro sembra crescere del 7% su base annua, il che storicamente implica un’inflazione core dell’IPC più vicina al 4%.

Gli Usa sono già in recessione?

Inoltre, la probabilità che gli Stati Uniti siano attualmente in recessione, o che lo saranno entro il terzo trimestre, è scesa ulteriormente la scorsa settimana, con la pubblicazione del solido rapporto sull’occupazione di luglio e del PMI dei servizi ISM. Sebbene vari indicatori (richieste di indennizzo, indagine NFIB sulle offerte di posti di lavoro, indagine del Conference Board sulle condizioni attuali del mercato del lavoro, ecc.) suggeriscano che il mercato del lavoro, analogamente alla crescita del PIL reale, stia perdendo slancio, cosa che non era evidente nell’indagine di luglio.
Tuttavia, i mercati del lavoro, che sono in ritardo rispetto alle tendenze di crescita, probabilmente rallenteranno, e il forte slancio finora registrato, unito ai solidi dati salariali, pone la Fed sulla strada giusta per un altro aumento di 75 punti base alla riunione di settembre e per rivedere ancora una volta al rialzo le proprie aspettative per il tasso sui Fed Funds a fine anno. Questa revisione porterebbe la politica monetaria ad essere restrittiva, ben al di sotto del tasso necessario per questa linea negli anni ’70 e ’80, perché nonostante l’elevata inflazione ciclica, il tasso d’interesse reale neutrale è probabilmente ancora molto basso.

Se la Fed ammetterà mai di avere come obiettivo una recessione è un’altra questione. A causa del suo duplice mandato di massima occupazione e stabilità dei prezzi, sarà più difficile per la Fed. Forse la cosa che più vi si avvicinerà sarà affermare che l’unico modo per raggiungere la massima occupazione nel tempo è ripristinare la stabilità dei prezzi, proprio come Powell ha affermato in numerose occasioni. Inoltre, quando si inasprisce la politica, i benefici di una comunicazione chiara e di una forward guidance concreta, che sono diventati un segno distintivo delle banche centrali dopo la crisi finanziaria, si fanno meno chiari.

Qual è la morale della favola?

Che i funzionari della Fed lo ammettano o meno, pensiamo che si stiano silenziosamente orientando verso l’idea che un periodo di crescita inferiore al trend non sarà sufficiente a moderare completamente le pressioni inflazionistiche. Invece, analogamente alle prospettive della BoE, potrebbe essere giustificato un approccio più deciso nel contesto di un tasso neutro reale ancora basso. Di conseguenza, sebbene le prospettive di recessione a breve termine siano diminuite, le prospettive di recessione a 12-18 mesi vedono senza dubbio maggiori probabilità. In altre parole, è finita l’era pre-pandemica dei banchieri centrali più gentili e delicati.